«Io, sopravvissuto a Mauthausen e alla furia delle Ss»

Il racconto di Pietro Emilio Bertoli e dei suoi 11 mesi in 4 lager. «Quando ci tornai, non pagai biglietto: ora vanto un credito»

UDINE. Centottantasei gradini. Sono quelli della scala della morte del campo di sterminio di Mauthausen. Li ha contati molte volte Pietro Emilio Bertoli sopravvissuto a un inferno fatto di botte e fango. Li ha contati perché arrivare in cima significava la salvezza, almeno per qualche altro istante. Se li ricorda bene quei maledetti gradini così stretti e alti. E si ricorda bene il sangue che macchiava le pietre che i deportati dovevano trasportare a spalla. Sangue di altri prigionieri, morti per la fatica, per il freddo, o vittime del crudele sarcasmo delle SS, che per diletto li spingevano giù, in fondo alla cava. A un giorno dalle celebrazioni della “Giornata della Memoria”, Bertoli, 87 anni, di Villanova di San Daniele, ha ricordato quegli 11 mesi trascorsi tra quattro lager: prima di Mauthausen, Dachau e poi a Melk e a Ebensee.

Quando e come venne catturato?

«Era il maggio del 1944 e avevo 19 anni. Rientrando a casa fui avvisato che ufficiali delle SS erano stati da me e avevano chiesto dov’ero, intimando che se non mi fossi presentato al comando di San Daniele avrebbero portato via mio padre. Ci andai. All’epoca non facevo parte di nessuna organizzazione partigiana, ma forse qualcuno fece la spia. Rimasi lì cinque giorni, nei quali non mi interrogarono, ma mi diedero solo tante botte. Poi, insieme a diversi partigiani presi in un rastrellamento, fui portato nelle carceri di via Spalato, a Udine, e dopo 15 giorni partimmo verso Dachau. Da allora fui il numero 96668».

Dove fu trasferito?

«Dopo 15 giorni, passai prima a Mauthausen e, quindi, nel sottocampo di Melk. Qui, fui impiegato nella costruzione di gallerie e, poi, a portare i mattoni per erigere il crematorio, cosi i morti potevano essere bruciati lì e non serviva li portassero più a Mauthausen. Facevamo tre turni di lavoro. A ogni mancanza, 25 randellate. Prima di rientrare nelle baracche c’erano sempre appelli lunghissimi: chi non stava più in piedi veniva eliminato. Io ormai ero tra i più “vecchi” nel campo e avevo sempre il terrore che si accorgessero del mio numero così basso rispetto a quello dei nuovi arrivati».

Come avvenne la liberazione?

«Quando capirono di essere stati sconfitti, i tedeschi ci trasferirono a Ebensee. Camminammo per quattro o cinque notti, durante le quali tantissimi persero la vita. Il 5 maggio del 1945, ci alzammo e il lager era stato abbandonato dai nazisti. Il giorno dopo arrivarono gli americani. Appena potei uscire dal campo, mi recai in una casa di civili, che mi diedero vestiti nuovi, visto che i miei ormai erano pieni di pidocchi. Dopo tre mesi, partii verso casa un po’ a piedi un po’ su mezzi di fortuna. Quando arrivai pesavo 48 kg. Undici mesi prima ne pesavo 96».

Come riuscì a sopravvivere?

«Innanzitutto perché non fumavo. In questo modo, potevo barattare le sigarette con razioni di cibo. Uno spagnoletto valeva anche tre razioni di pane in più. Conobbi poi un capo trentino, attraverso il quale mio padre riuscì a inviarmi sigarette e cibo. Sono sempre stato sostenuto da una grande forza d’animo e dalla fede e sono stato fortunato, perché non mi sono mai ammalato».

Come fu tornare alla vita di tutti i giorni?

«Non facile. Per due anni non riuscii a dormire. A vent’anni ero costretto a camminare con il bastone, non mi reggevo in piedi».

In seguito, ritornò a far visita ai lager?

«Sì. Ricordo che all’ingresso di Mauthausen mi chiesero di pagare il biglietto. Gli risposi che ero io ad avanzare del denaro, visto che in quel posto avevo lavorato per mesi: mi fecero entrare».

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