Italia, qui "Julia" FOTO

Una giornata come tante. Storie di ragazzi “normali” impegnati in missione nel Paese degli aquiloni

La Julia è in Afghanistan. La presenza, le attività, la vita quotidiana dei nostri militari sono raccontate con testi e foto prodotti direttamente dagli uomini della brigata alpina, in questa rubrica («Italia, qui Julia...») che sarà aggiornata settimanalmente.

A scrivere stavolta è il caporal maggiore Elisabetta Paolini 3° reggimento artiglieria da montagna.

È domenica mattina. Presto. Un giorno come tanti altri qui in Afghanistan e, mentre gran parte del personale di stanza a ‘Camp Arena’ dorme ancora, i ragazzi con cui trascorrerò l’intera giornata sono già svegli e si preparano per l’attività che li attende. È una ‘squadra’ del 3° plotone della compagnia di reazione rapida del 7° reggimento alpini, e il programma odierno prevede una serie di lezioni di tiri ‘di mantenimento’ in poligono.

Dopo circa 120 giorni trascorsi qui a Herat, preceduti da un intenso ciclo di addestramento svolto in Patria, il mantenimento della piena efficienza operativa è un aspetto fondamentale per ogni militare: siamo in un ambiente difficile, con insidie giornaliere nascoste dietro ogni angolo.

Bisogna quindi essere sempre preparati a ogni evenienza e l’addestramento serve per reagire in maniera automatica, nel minor tempo possibile. I comandanti lo ripetono sempre: l’addestramento è la migliore arma contro le insidie che affrontiamo ogni giorno.

Il ritrovo è previsto alle 7.45 davanti al parcheggio automezzi: quando arrivo sul posto, i ragazzi che dovrò seguire stanno ultimando i preparativi che precedono ogni attività esterna. Eseguono gli ultimi controlli ai ‘Lince’, effettuano le prove di collegamento radio, montano le armi sulle ‘ralle’ e indossano i giubbotti antiproiettile. Ognuno ha un incarico molto chiaro e lo svolge dimostrando preparazione e professionalità.

Il silenzio mattutino è rotto solo da un sottofondo musicale proveniente da un cellulare che allevia la tensione.

Sono le 8.15, tra pochi minuti si parte, non prima però di aver ricevuto le ultime indicazioni del comandante di plotone, il Maresciallo Marchiori. Tutti ascoltano attentamente: sanno che ciò che li aspetta è un’attività che, seppur addestrativa, si svolge all’esterno e che, per raggiungere il poligono di tiro di ‘Camp Zafar’, dovranno percorrere la cosiddetta ‘Ring Road’, dove le insidie possono essere lì pronte ad aspettarti. L’attenzione deve quindi essere al massimo già da questo momento.

Si parte.

Il percorso è breve, circa trenta minuti: i ‘rallisti’ si guardano attorno vigili, controllando ognuno il proprio settore. Durante il tragitto nessuno parla … si ascoltano solamente le comunicazioni radio tra il comandante di plotone e i comandanti di squadra.

Giungiamo al poligono intorno alle 9.00. All’ingresso troviamo i militari dell’Afghan National Army che ci accompagnano fino alla linea di tiro. I conduttori parcheggiano i ‘Lince’, si scende dai mezzi e i vari comandanti di squadra concedono qualche minuto per rifocillarsi, bere e ripulirsi dalla polvere, tipica di giornate così calde e ventose.

La tensione del tragitto cala e l’attività può iniziare. Gli esercizi da effettuare consistono in tiri di mantenimento con ‘l’arma di reparto’ e, successivamente, nella simulazione della procedure da utilizzare qualora ci si imbatta in un attacco da parte degli insurgents.

Uno alla volta i miei colleghi salgono sulle ‘ralle’ ed effettuano le lezioni di tiro, seguiti dal comandante di plotone e dai colleghi più esperti. Si nota subito un forte ‘spirito di corpo’, fattore fondamentale per l’unità di un reparto, specialmente a queste latitudini: i più ‘anziani’ affiancano i più ‘giovani’, correggendone gli eventuali errori. Questo rapporto di complicità è il frutto dei lunghi e duri mesi di addestramento svoltosi in Patria (a Belluno) e cementatosi nei circa 120 giorni già trascorsi qui ad Herat.

Alle 14.00, dopo che tutto si è svolto regolarmente, si rimonta sui ‘Lince’ e si riparte: destinazione la vicina base americana di ‘Camp Stone’, dove ci fermeremo per il pranzo.

Accaldati e impolverati, ognuno si toglie il giubbotto antiproiettili e, a gruppi di 4/5, si raggiunge la mensa dove, per la prima volta dall’inizio della giornata, si potrà godere di un po’ di relax chiacchierando del più e del meno. Dai loro discorsi traspare la giovane età che li accomuna: hanno infatti tutti meno di trent’anni. Un’ora di pausa per poi far rientro alla base di ‘Camp Arena’.

Alle 15.30 circa siamo di nuovo ‘a casa’, ma la giornata non è ancora finita: prima di potersi concedere un po’ di riposo è necessario effettuare la pulizia delle armi, la manutenzione degli automezzi e il controllo delle radio. Sotto un sole cocente, ogni singolo componente della squadra svolge il proprio compito: lavorano insieme, fianco a fianco da quattro mesi, condividendo un’esperienza sicuramente fuori dal comune per chi come loro ha poco più di vent’anni.

Una volta terminate le cosiddette attività di ‘ricondizionamento materiali’ il comandante di plotone li ‘mette in libertà’ fino all’ora del briefing ove illustrerà loro il programma del giorno seguente e analizzerà il lavoro svolto oggi.

In queste ore ‘di libertà’ accompagno in camera l’unica ragazza della ‘squadra’ che viene accolta dalla compagna di stanza con un sorriso entusiasta: sono colleghe, ma ancora prima sono amiche, l’una l’appoggio dell’altra nei momenti di sconforto che questa esperienza ti porta a vivere, nonché nei momenti di spensieratezza tipici dei vent’anni.

Prima del briefing serale, in attesa dell’arrivo del comandante di plotone, incontro un altro componente dell’unità che mi chiede il perché stia seguendo la loro giornata. Gli rispondo che è “per raccontare la vita vera di ragazzi comuni in missione”. Lui mi sorride e, mostrandomi la fede all’anulare, mi dice “questa è la vita vera”.

Arriva il maresciallo che illustra le attività del giorno successivo … al termine della riunione … ‘tutti liberi’, ci si vede domani.

La serata continua: cena in mensa e poi un po’ di relax al bar: si beve qualcosa in compagnia prima tornare in alloggio per il meritato riposo.

Nonostante le tante ore trascorse insieme l’affiatamento non cala: questi ragazzi sono uniti e affrontano quest’esperienza insieme, consci dell’importanza di poter contare gli uni sugli altri. È vero, gli indispensabili momenti di privacy sono quasi nulli, le discussioni causate dalla tensione e dalla ‘forzata convivenza’ sono parte integrante delle loro giornate, ma questo non li divide e li accompagnerà fino all’ultimo giorno della loro permanenza in Afghanistan.

La giornata è finita: prima di andare a dormire, una videochiamata alle fidanzate e ai fidanzati o una telefonata a casa per rassicurare i propri cari che va tutto bene e che un altro giorno è passato.

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto