Jannacci: a Udine fu anche medico in corsia
UDINE. Quelli che passano gli anni, cambia il clima (non esistono più le mezze stagioni, così come le mezze maniche...) ma, a Milano come a Udine, continuano a indossare vecchie e logorate scarpe da tennis e a morire di freddo sotto un mucchio di cartoni. Quelli che è sempre più difficile arrivare alla fine del mese, senza essere costretti magari a rapinare una banca...
Sono gli ultimi, i disgraziati, i poveri, i diversi, gli sfigati, i dimenticati da tutti, raccontati per oltre mezzo secolo di carriera da Enzo Jannacci, scomparso l’altra sera a Milano, all’età di 77 anni, dopo una lunga malattia. Quelli che non ce la fanno, insomma, cantati sempre con attenzione, partecipazione, affetto e soprattutto con tanta ironia, perché per vivere – sosteneva – bisogna anche ridere.
Legato alla sua città, Jannacci è stato un artista veramente unico: cantante e musicista, ma anche attore (ha recitato per Monicelli, Ferreri, Scola, la Wertmüller, per cui scrisse Quelli che; l’ultima interpretazione cinematografica nel 2010 per Castellitto in La bellezza del somaro), sceneggiatore e regista (in teatro e in televisione)...
Ma soprattutto scopritore di talenti: da Cochi e Renato a Boldi («faceva il tassista – aveva raccontato in un’intervista in occasione di uno spettacolo a Udine – ma aveva una faccia comica») e ad Abatantuono, e in tempi più recenti, Bove e Limardi. Negli Anni novanta aveva pure aperto un cabaret (Il bolgia umana), per rinverdire i fasti di quella fucina che fu il mitico Derby.
Cintura nera di karatè, grande appassionato di sport, Jannacci non aveva mai abbandonato la sua carriera di medico, che ha continuato a esercitare fino al sopraggiungere della malattia. Cardiochirurgo specializzatosi in Sud Africa con Christiaan Barnard, Jannacci aveva lavorato anche in Friuli, all’ospedale di Udine, accanto al professor Meriggi.
Era la metà degli Anni settanta. Dopo il grande successo di Vengo anch'io no tu no, la sua carriera aveva subito una battuta d’arresto: tutti gli chiedevano “canzonette”, lui invece era andato a Canzonissima con Gli zingari, un brano intimista e struggente. Una botta. Jannacci era tornato allora alla medicina per specializzarsi in cardiopatie infantili, capitando cosí anche a Udine nel '76 (abitò a Fagagna), dove visse la drammatica esperienza del terremoto.
Poi, all’inizio degli anni Ottanta, grazie all’amico Paolo Conte che lo invitò sul palco, riprese l’attività di musicista, incidendo uno dei suoi più importanti album (Ci vuole orecchio) e a cantare dal vivo. Una rinascita, la seconda parte di una carriera che è proseguita fino al 2011, con una trentina di album, centinaia di concerti, spettacoli teatrali (anche un inusuale Aspettando Godot, con l’amico Giorgio Gaber), apparizioni televisive, alcuni Sanremo.
Nel 2007 l’ultimo disco, The best presentato anche in Friuli (a Cormòns, a Latisana e in occasione del festival di poesia Absoluty poetry a Monfalcone): 35 brani, la metà dei quali incisi ex novo con la collaborazione del figlio Paolo, per un totale di 151 minuti di risate e lacrime, di puro umorismo e commozione.
Brani di cui si erano perse le tracce, come Dona che te durmivet, per l’occasione tradotto in italiano senza perdere nulla del suo fascino (alzi la mano chi sa cosa erano a Milano le latterie, nelle quali ci si ritrovava la sera a parlare di calcio e donne?), o rivisitazioni in stile jazz di classici come Giovanni telegrafista. Quelli che hanno amato la vita, che l’hanno vissuta intensamente, sempre in equilibrio tra leggerezza e passione, tra ironia e impegno, tra una risata e un attimo di poesia. Quelli che ci mancheranno.
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