«La città sta perdendo la memoria urbanistica»

PORDENONE. Quale città fra vent’anni? Riscoprire la propria identità per costruire lo sviluppo urbanistico del futuro: una riflessione fondamentale mentre sta per essere varato il nuovo piano regolatore.
«Partiamo dal Novecento – propone Moreno Baccichet, architetto, referente del progetto “Scarpe e cervello” di Legambiente (scarpecervello.blogspot.it) –, un periodo storico cui l’Ordine degli architetti sta dedicando una guida e un censimento delle opere più importanti nate il secolo scorso a Pordenone. Si tratta di opere difficili da riconoscere nei loro caratteri testimoniali più che architettonici e per questo rischiano di scomparire (vedi il villino ex Piovesana in via Cavalleria).
Eppure rappresentano una memoria importante della città. Non possiedono livelli architettonici altissimi, tuttavia esse sanno ben raccontare la storia dell’industrializzazione pordenonese. Su questa ricerca Legambiente ha organizzato tempo fa visite guidate ripercorrendo questo itinerario urbano. Per esempio, che valore diamo alla lottizzazione fatta dai multilati di guerra risalente al 1930 nella zona San Valentino?
Oppure alle case popolari dei cotonifici costruite intorno al 1924-’25? Questo è il valore di cui vorremmo si tenesse in conto nel nuovo piano regolatore: meno legato alle cubature e più al senso dei luoghi. Dal centro storico ai quartieri della città-giardino degli anni 20 o alle case popolari degli anni della Zanussi e dell’industria pesante: questi spazi fanno parte dell’identità urbana che andrebbe riscoperta forse con tecniche che non hanno neppure una ricaduta normativa.
Il prossimo piano potrebbe avere poche norme ed essere legato al tema del valore identitario. Io almeno ci spero, ma comincio ad avere i miei dubbi. Mi pare invece, che ne esca un piano tradizionale, mentre avrei preferito un documento più moderno e ambizioso, meno conforme alle norme regionali, storiche, utili, ma per governare città in espansione e non per città che devono imparare a riscoprirsi e a ricucire qualche strappo. Un piano che affronti il tema delle norme figurate e immediatamente comprensibili ai cittadini. Un piano che sia anche un osservatorio permanente sull’urbanità. Un laboratorio continuo e partecipato».
Amnesia urbana. Legambiente ha in cantiere per il 2015 un’iniziativa che si intitola “Amnesie urbane” dedicata al fatto che ci si dimentica di alcune parti di città costruendo un tessuto di residui che spesso hanno un significato testimoniale.
Questi scompaiono agli occhi dei cittadini in una sorta di Alzheimer sociale. Pochi si rendono conto di quanti appartamenti sfitti esistano, per esempio, nelle strutture che hanno sostituito l’ex consorzio agrario o l’ex Standa. Quello degli spazi residuali e abbandonati è un fenomeno sempre più diffuso nella società contemporanea che si esprime anche attraverso forme di disattenzione o “atti mancati” nel contesto cittadino.
E’ bene attrezzarsi a queste letture soprattutto in attesa che arrivino per le città i cambiamenti legati ai prossimi paesaggi della crisi. A mio parere, non siamo preparati a cosa avverrà: pensiamo ai problemi immediati di occupazione lavorativa che gli abitanti devono affrontare in questo periodo, ma a questi si sommeranno le ricadute urbane determinando sempre di più una situazione che per gli anni 90 era inimmaginabile.
Oggi sempre più la Pontebbana è costellata di capannoni vuoti per adesso ancora in buone condizioni, ma fra qualche anno? Saranno sommersi dalla boscaglia come, per esempio, l’ex Birreria? Si tratta di luoghi posti all’interno della città dell’espansione urbana anni 60 e ci si dimentica della loro esistenza, del progressivo abbandono, ma ci penserà la natura a reintepretare i luoghi come ha fatto con i cotonifici.
Le successioni ecologiche avvolgeranno altre parti della città aumentando la componente del selvatico.
Area Amman. «Ci sarebbe da riflettere a fondo – secondo Baccichet – sulle motivazioni che per decenni non hanno permesso il recupero dell’area del cotonificio Amman. Uno spazio di cui era divenuta unica proprietaria la cooperativa Cesi. In realtà l’abbandono, come del resto quello degli appartamenti sfitti in città, ha seguito le logiche dello sfruttamento immobiliarista.
I cotonifici sono serviti alla Cesi per avere finanziamenti dalle banche e questi erano proporzionati alla cubatura edificabile. Non serviva nemmeno intervenire. Quei ruderi valevano denaro anche nel degrado più assoluto. Queste logiche non hanno più senso nel XXI secolo e come si vede non hanno impedito il fallimento dell’impresa cooperativa. Non c’era l’intenzione di fare nulla in realtà.
Ora ci vogliono un pensiero e un programma collettivo, una politica pubblica. E’ finita la stagione in cui si credeva che la città sarebbe cresciuta da sola governata dalle norme dell’urbanistica tradizionale e dalla capacità dell’investimento privato. Ora più che mai bisogna pensare a un governo territoriale creativo, capace di accompagnare il corpo sociale nella sua progressiva trasformazione.
Il Comune non può continuare ad aspettare gli immobiliaristi. Occorre mettere in atto un grande lavoro di vera politica di recupero per uno spazio urbano importante. Non basta scrivere sul Prg cosa si sarebbe potuto realizzare in quegli spazi. Le norme c’erano già nei vecchi piani, ma si è assecondata la logica della rendita: ruderi in cambio di contante.
L’Amman è un tratto distintivo della città. Ora non si vede neppure più. Un altro caso di amnesia non soltanto per le sue funzioni, ma anche per la carica simbolica che lo accompagna: quelle costruzioni sono state tolte alla vista dalla natura che fa il suo corso e a differenza dell’uomo persegue i suoi obiettivi».
Auto e città. La mobilità è un problema congenito per Pordenone che è nata proprio su questo tema. E’ proprio il suo modello di sviluppo sino dalle prime espansioni degli ani 40, ma anche prima, con le prime lottizzazioni degli anni 20, quando i borghesi volevano uscire dal centro storico considerato un luogo insalubre per abitare villini con piani alti e le finestre sui 4 lati.
A quegli anni risalgono le prime lottizzazioni in via Selvatico, via Molinari e via Montereale. L’inizio della città diffusa che prendeva la forma della città-giardino. Così da sempre Pordenone, come del resto Gorizia, soffre di questo rapporto con una mobilità estesa, progettata sull’auto e sulla bicicletta.
Forse dovremo imparare a convivere con questo aspetto trovando soluzioni che permettano di reinventare lo spazio delle strade perché non serva solamente per circolare o parcheggiare. Il tema della mobilita è importante soprattutto nei quartieri, nelle periferie che sono le parti più difficili da rigenerare. E’ la parte più estesa e difficilmente trasformabile della città diffusa.
Futuro. «Mi pongo soprattutto il pensiero di una prospettiva urbanistica fra vent’anni – sottolinea Baccichet –. Cosa succederà alle diffuse periferie della conurbazione allora? Perché non trovare strumenti come il contratto di quartiere per risolvere problemi di tensione in alcuni ambiti urbani come in viale Trento, dove l’invecchiamento dei fabbricati sconta le difficoltà di rigenerare immobili in situazioni in cui la popolazione insediata è in perenne conflitto? L’avvenire dell’urbanistica dei prossimi anni sarà proprio legato al fatto di essere ancora una volta una tecnica utile per sedare i conflitti e costruire nuovi modi dell’abitare».
Caserma Mittica. Nella sua analisi l’architetto mette in evidenza che «non è possibile continuare a tirare teli di plastica avvolgendo le camerate alla caserma Mittica, dove molte parti stanno crollando e dove non si fa più manutenzione. Nessuno pensa in questo momento a un recupero progressivo della struttura. Un processo di dismissione per lotti come era avvenuto per l’altra caserma, fagocitata poco per volta dall’ospedale.
Mi chiedo se è possibile che questo spazio torni alla città per usi temporanei come Parco 2, oppure come sede dell’Archivio di Stato, visto che come spazi le camerate si potrebbero prestare a essere depositi asciutti dei documenti storici. Eppure faccio fatica in questo momento a vedere qualcuno che indichi la direzione e che cominci a fare i primi passi. Quando l’Ariete se ne andrà scoppierà come al solito l’emergenza».
Noncello. Siamo convinti di avere una oasi naturalistica in pieno centro o sarebbe più opportuno uno spazio legato all’attività dell’uomo? Meglio un fiume desertificato dall’uomo ma naturalizzato? Vogliamo che abbia un carattere urbano come i parchi di Londra o sia invece come il parco della Dolomiti friulane? L’amministrazione civica dovrebbe sollecitare abitanti e utenti della città a creare una politica su questo ambiente, mentre per ora ci si limita a piccoli interventi di manutenzione.
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