La foiba non c’è: chiesta l’archiviazione

Dalle indagini non è emerso alcun riscontro al documento del 1945 che segnalava la presenza di una fossa comune a Rosazzo
Di Luana de Francisco
Prepotto e Dolegna del Collio 13 Marzo 2016. Ricerca foibe a Craoretto ed a Scrio'. Copyright Agenzia Foto Petrussi / Petrussi Diego
Prepotto e Dolegna del Collio 13 Marzo 2016. Ricerca foibe a Craoretto ed a Scrio'. Copyright Agenzia Foto Petrussi / Petrussi Diego

Nella zona di Rosazzo, e del Bosco Romagno in particolare, non esiste alcuna foiba contenente le salme di un numero imprecisato di persone - indicato tra un minimo di 200 e un massimo di 800 -, trucidate sul finire della seconda guerra mondiale per mano o, comunque, su ordine dei partigiani Sasso e Vanni.

È questa la conclusione cui è giunta la Procura di Udine, dopo dieci mesi di indagini condotte a scavalco tra il Friuli, alla ricerca della presunta fossa comune, e Roma, negli archivi dei ministeri agli Esteri e alla Difesa, dello Stato Maggiore dell’Esercito e dei Servizi segreti, dove solo avrebbero potuto essere conservati documenti comprovanti la sua presenza. Il risultato è stato negativo su tutta la linea e questo ha convinto i carabinieri di Palmanova a ritenere «non più utilmente esperibile altra attività», e il procuratore aggiunto Raffaele Tito, che ha coordinato l’inchiesta, a chiedere al gip l’archiviazione del procedimento.

A mettere in moto la macchina giudiziaria erano state le parole con cui Luca Urizio, presidente della Lega Nazionale di Gorizia, nel Giorno del Ricordo del febbraio scorso, aveva raccontato del ritrovamento alla Farnesina di un documento del 12 ottobre 1945, in cui si parlava appunto dell’infoibamento di centinaia di persone. La rivelazione era stata riferita dal Messaggero Veneto e prontamente fatta oggetto di un’informativa dell’Arma.

«Da quanto ricostruito – scrive il pm – sembra di poter ritenere, seppur non con totale certezza, che l’autore del documento, forse un agente segreto di nome Ermete, abbia esagerato o ingigantito fatti, peraltro di per sè comunque gravi e tragici, effettivamente avvenuti». Il che, quindi, non significa negare che in quel periodo e in quella zona avvennero episodi di sangue. Prova ne sia la nota a firma dell’allora sindaco di Premariacco, Dante Donato, inviata il 19 maggio 1945 alla Procura di Udine per segnalare che «nel territorio di questo Comune si trovano sparse nella campagna e sepolte quasi a fior di terra le salme di circa 60 persone in parte sconosciute, uccise dai partigiani, perchè ritenute spie o collaboratrici dei tedeschi». Con quella comunicazione si chiedeva l’autorizzazione a raccogliere i cadaveri (quelli riesumati in zona Rocca Bernarda sono risultati 41) e trasportarli in cimitero «anche per motivi igienici».

Nell’aprire un fascicolo a carico di ignoti - i due presunti responsabili Sasso e Vanni, al secolo Mario Fantini e Giovanni Padoan, nel frattempo sono entrambi deceduti -, Tito aveva ritenuto di applicare astrattamente una delle ipotesi previste all’articolo 3 della cosiddetta Amnistia Togliatti (22 giugno 1946): strage o sevizie particolarmente efferate, tali da escludere l’effetto estintivo del reato di omicidio semplice. La prova certa dell’esistenza della fossa, indispensabile per formulare la correlata ipotesi accusatoria, però, non è emersa.

Nulla nè dalle ricerche sul campo, propedeutiche a una significativa attività di scavo, nè dall’esame del materiale cartaceo acquisito negli uffici ministeriali, nè dalla testimonianza di chi avrebbe potuto o dovuto sapere. E cioè del figlio dell’allora sindaco di Premariacco, che alla Polizia giudiziaria ha invece riferito di non avere mai sentito dal padre alcunchè in proposito, e degli stessi Padoan e Fantini, che in vita non è risultato abbiano mai fatto cenno alla fantomatica fossa di Bosco Romagno.

E visto che di un’indagine simile si era recentemente occupata anche la Procura di Bologna, Tito ha voluto tentare anche quella strada, nella seppure remota possibilità di un qualche «riferimento trasversale». L’esito è stato a sua volta negativo. Così come vano è stato lo sforzo di memoria chiesto al luogotenente che all’epoca lavorava alla stazione di Cormòns e che, pur ricordando di un «casolare» nel Bosco Romagno usato come base logistica dai partigiani, di un «pozzo dove venivano occultate le armi», di «alcune uccisioni in località Rosazzo-Poggiobello», nulla ha invece detto di sapere, neppure indirettamente, di così tante persone gettate in una fossa comune.

E infine i documenti e le annotazioni di polizia messi a disposizione dall’Agenzia informazioni e sicurezza esterna, dove Tito si è recato personalmente il 21 ottobre. Niente neppure lì, tanto meno all’interno dei fascicoli personali di Sasso e Vanni.

«Il collega non ha lasciato niente di intentato – ha affermato il procuratore Antonio De Nicolo –. Condivido quindi pienamente la scelta di non tenere aperta oltre un’inchiesta di cui non sono prevedibili margini di sviluppo».

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