La Lavanda di Venzone abbassa le serrande: la società è fallita

VENZONE. Giù le serrande per una delle insegne più rappresentative del Friuli. La “Lavanda di Venzone”, la società che per anni ha tinto di viola una miriade di prodotti, dai profumatori e i cosmetici a ogni genere di decorazione per la casa, esportando il proprio marchio in tutto il mondo, è stata dichiarata fallita. La sentenza del tribunale di Udine porta la data di venerdì scorso, 15 giugno.
Non proprio un fulmine a ciel sereno, considerate le traversie giudiziarie che Palmina Toso - per tutti, la Signora della Lavanda -, legale rappresentante della srl con sede in via Mistruzzi 12, aveva dovuto affrontare negli ultimi tempi, tra condanne passate in giudicato e la sfilza di reati fiscali che le erano stati contestati a partire dal 1987.
E considerati anche i ricorsi che alcuni lavoratori avevano presentato, prima di chiederne il fallimento. Ora, a mettere una pietra tombale sulle sue ambizioni di espansione - era stata proprio lei, poco più di tre anni fa, ad annunciare un contratto a sei zeri con la società saudita “Matajar All O Tor Comp” - è stato il timbro apposto dal tribunale fallimentare presieduto da Francesco Venier. Che ha nominato la commercialista Gloria Bubisutti, di Tolmezzo, curatore della procedura.
L’esame dello stato passivo davanti al giudice delegato Andrea Zuliani avverrà nell’udienza del 30 ottobre.
«È chiaro che se ora la nostra azienda ha un bilancio di circa 2,6 milioni di euro – aveva affermato al Messaggero Veneto, nel marzo 2015, Madame Lavanda, all’epoca 60enne –, già con il prossimo anno raddoppieranno, e che se oggi abbiamo un indotto di 500 persone in cinque anni dovranno quadruplicare».
Dimenticando, forse, il conto di quasi 300 mila euro - tra contributi e sanzioni amministrative - che l’Inps le aveva da poco presentato, a seguito dell’accertamento sul personale impiegato a partire dal 2009. Lavoratori inquadrati nelle più svariate forme contrattuali, che gli ispettori, valutati tempi e modi delle rispettive mansioni, avevano ritenuto di ricondurre invece nell’alveo dei rapporti di natura subordinata a tempo indeterminato.
Di lì a poco - il 21 ottobre 2015 - era scattata la detenzione domiciliare. Tutta colpa di un omesso versamento di ritenute previdenziali risalente al 2008. Questione di poche centinaia di euro appena: 1.200, per l’esattezza, di cui l’Inps aveva preteso il versamento. Risultato: un mese di reclusione e 200 euro di multa.
Che, con la sentenza diventata definitiva e in assenza del “bonus” della sospensione condizionale della pena detentiva - bruciato dalla caterva di precedenti penali riconducibili a questo e ad altri reati -, le era toccato espiare.
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