LA LETTERA DEL GIORNO Il calcio chiuda le frontiere

 

È iniziato da due settimane il campionato italiano di serie A, si parla ancora di mercato, ma una domanda sorge spontanea, come diceva qualcuno: ma è davvero il campionato di calcio italiano? Anche la nostra Udinese non scherza nello schierare stranieri, per carità, adesso siamo nella globalizzazione (che parolone), ma allora non chiamiamolo campionato di calcio italiano; è il campionato di calcio della globalizzazione.

Signori, noi abbiamo dei giovani italiani, che nessuno vede e che nessuno ha voglia di aspettare; tra non molto Prandelli deve chiedere una delega per far giocare nella nazionale italiana anche qualche straniero. Che vengano gli stranieri a giocare in Italia, ma valorizziamo i nostri giovani. Faccio un appello: ma perchè Iaquinta non lo vuole nessuno; ricordo che è stato campione del mondo. Forza Vincenzo. Cordiali saluti

Arcangelo Tranquillo, Remanzacco

Risponde Sergio Gervasutti

Vado a ruota libera, come si usa dire anche se si parla di calcio e non di ciclismo. Dipendesse da me, chiuderei le frontiere, ognuno giochi in casa sua e lasciatemi imparare a memoria i nomi della formazione senza incespicare con la lingua. Che il campionato sia definito “italiano” mi fa un po’ ridere, anzi, molto ridere quando vi partecipano squadre (esemplare l’Inter dell’anno scorso) che non schierano neppure un nostro connazionale e presentano i gioielli scoperti e acquistati con pochi centesimi negli stadi del polo nord, dell’equatore e del polo sud che poi saranno rivenduti per una barca di milioni. Incassa e porta a casa.

E questo non è solo un modo di dire, ma una realtà: il calcio è soltanto apparentemente uno spettacolo, essendo prevalenti in quel mondo interessi economici superiori a molte altre industrie. Chiarisco che le mie osservazioni, coincidenti con quelle del lettore, nulla hanno da spartire con le venature razzistiche che troppo spesso circolano tra gli spettatori: più che pagliacciate, quelle sono espressioni di potenziale criminalità, ovviamente deprecabili e condannabili.

Detto questo, credo di poter rimpiangere i tempi in cui nelle formazioni italiane si leggevano nomi di matrice friulana, veneta, lombarda, piemontese, eccetera. In questa mia smania di italianità, sono arrivato ad accettare - pure a bocca storta - la presenza (chi se ne ricorda?) del trio svedese Gre-No-Li del Milan anni ’50, ma non me ne vergogno, perché all’ala destra c’era Renzo Burini, che aveva giocato nel Palmanova, come me. Non so se mi spiego.

A parte queste divagazioni, penso si debba prendere atto che ormai il mondo è cambiato e il calcio non poteva esimersi dalle innovazioni. Basti dire che i calciatori sono professionisti e come tali hanno diritti e doveri secondo regole internazionali. Una volta si giocava per inorgoglire la propria città, ora le telecamere mostrano tante bocche cucite quando squilla l’inno nazionale. Mah, almeno vincessero.

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