LA LETTERA DEL GIORNO Non mancano sollecitazioni al sacrificio
Molti anni fa, e prima dell’attuale crisi economica, l’Economist aveva definito il mercato del lavoro italiano come “arcaico”. C’è l’eterno dibattito a Udine per chiudere/aprire i negozi di domenica. Sono nato circa 60 anni fa. Prima della mia nascita i negozi in Usa facevano orario continuato tutto il giorno. Alla fine degli anni ’70 i grandi centri commerciali rimanevano aperti anche fino alle 22, e sempre con orario continuato. Questo concetto dava (anche) la possibilità ai giovani di lavorare part-time mentre studiavano. Dava a loro una cosa molto, molto importante: l’indipendenza economica. Guardiamo la situazione in Italia, in particolare a Udine, nel 2013: negozi che ancora chiudono il dopopranzo per la “pennichella” e negozi chiusi di lunedì (Udine è un vero mortuorio i lunedì!). Invece di aprire i negozi domenica, perché non lasciarli aperti lunedì? Perché’ non fare l’orario continuato per poter dare ai giovani la possibilità di fare un’esperienza (tutti i grandi imprenditori in Nord America da giovani hanno cominciato a lavorare part-time per poi arrivare ad altissimi livelli). Come diavolo fa un Paese come l’Italia, nel 2013, a non essere un “arcaico” con un mercato del lavoro come quello attuale (ho un amico che a mezzogiorno già chiudeva per l’ora di pranzo mentre spesso alle 18.30 il negozio era già chiuso fino al giorno dopo, dopo tot anni di questi ritmi ha chiuso definitivamente l’altro giorno)?
Mario Giacomello
Udine
La risposta di Gervasutti
Tra l’America e l’Italia ci sono non poche diversità nel concepire la vita; ciò è dovuto a vari fattori, tra cui i più significativi si possono considerare le ricchezze naturali, lo spirito imprenditoriale, la voglia di lavorare e il desiderio di riposo. Possiamo considerarci deficitari in tutto, tranne che nell’ultima voce: sarà anche una questione di clima, ma quanto a tutelare le stanche membra siamo imbattibili (almeno da Bologna in giù). Detto questo, si capisce come l’orario dei negozi a Udine e in tante altre città rappresenti un problema che spesso mette in conflitto autorità locali e rappresentanti di categoria, in particolare i commercianti. In un periodo come questo credo che le sollecitazioni al sacrificio non manchino, ma il più delle volte riguardano tagli alla spesa, riduzione di prebende, risparmi di vario genere, riduzione del superfluo e così via; il guaio è che trova scarsa considerazione il fatto che per ottemperare a tali inviti è necessario disporre di una ricchezza già esistente, altrimenti c’è poco da tagliare. Il problema, dunque, consiste nell’investimento che ognuno fa nel suo lavoro per ottenere una sostanziosa remunerazione; ma a questo punto diventa fondamentale un inevitabile quesito: in Italia c’è per tutti la possibilità di lavorare? La risposta purtroppo è negativa e ne consegue che dell’insegnamento americano abbiamo poco da emulare, pur riconoscendone la validità: teniamone conto per quando il motore dell’economia avrà ripreso a girare. Nel frattempo, penso sia auspicabile un atteggiamento più liberale per quanto riguarda gli orari dei negozi, senza coltivare molte illusioni sull’aumento dell’offerta lavorativa che ne deriverebbe per i giovani. Infine, si lasci campo libero a quanti sono ancora animati dalla teoria del “fare” e si studino le modalità per favorirli nelle iniziative, senza le quali è inutile coltivare speranze.
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