La lunga notte degli industriali e i tanti dubbi sullo stop produttivo: c'è poca chiarezza, sbagliato fermare così le aziende

Un giorno trascorso dalle associazioni di categoria in trincea, tempestate di chiamate degli associati che chiedevano lumi sul da farsi, con le bozze del provvedimento governativo a rimbalzare di smartphone in smartphone
A partire da sinistra Mareschi Danieli, Agrusti, Valduga e Carraro
A partire da sinistra Mareschi Danieli, Agrusti, Valduga e Carraro

La giornata più lunga per l’industria friulana dal secondo dopoguerra a oggi, si consuma in una domenica primaverile spazzata da un vento gelido. Quasi fosse un presagio di quel che il settore secondario della nostra regione sta vivendo, con i segnali incerti della ripresa messi ora a repentaglio dal ciclone globale del coronavirus.

La giornata più lunga è macchiata dall’incertezza di un decreto, quello annunciato sabato notte dal premier Conte in diretta su Facebook, che ha stentato tutto il giorno prima di vedere la luce. Un giorno trascorso dalle associazioni di categoria in trincea, tempestate di chiamate degli associati che chiedevano lumi sul da farsi, con le bozze del provvedimento governativo a rimbalzare di smartphone in smartphone

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«Sono le modalità che lasciano basiti: il buonsenso suggerirebbe di firmare il testo definitivo con le norme, prima di rivolgersi alla nazione», dice la presidente della Confindustria udinese, Anna Mareschi Danieli.

Che, con indosso la giacca della tuta della “sua” Abs ha lanciato un videomessaggio dai toni per nulla concilianti. Punto primo: pur premettendo che «non possiamo mettere a rischio la nostra salute», la numero uno di largo Melzi si è chiesta nel filmato come sia possibile «che questo inasprimento di regole avvenga esattamente 24 ore dopo il termine ultimo del pagamento degli F24», cioé delle imposte.

Poi precisa: «È un collegamento che hanno fatto in molti, nel mondo dell’impresa. Peraltro appena venerdì pomeriggio il governo aveva aperto la porta a una sospensione dei pagamenti, suggerendo comunque alle aziende in grado di assolvere agli obblighi fiscali di non tirarsi indietro. Un’impostazione che peraltro io stessa condivido: ma così? Ci è sembrata una presa in giro».

Mareschi Danieli poi ricorda l’accordo tra governo, associazioni di categoria e sigle sindacali - richiamato esplicitamente anche dai decreti del lockdown - per evitare lo stop alla produzione a patto di garantire le norme di sicurezza di base per limitare la diffusione del virus: «Quell’intesa, ora, viene calpestata da Roma», indica la presidente degli industriali friulani.

La chiusura degli stabilimenti, con tutto quel che comporta a livello tecnico, sembra quasi il meno: «Lavoratori e collaboratori sono spaventati, crescono i livelli di assenza: tante aziende, anche senza decreto, sono già ferme. Anche perché – ragiona Mareschi Danieli – bisogna ragionare non per settore, ma per filiera: la mia impresa può essere esclusa dalle restrizioni, ma se i miei clienti sono chiusi che senso ha continuare la produzione?». Ci sono poi aspetti contrattuali che il decreto non tiene in considerazione, «adempimenti nei confronti dei clienti che le aziende sono tenute a rispettare, visto che parecchi Stati esteri al momento non hanno derogato su nulla».

Per il post c’è tempo: «Il ricorso alla cassa integrazione sarà diffuso: credo che per come si stanno mettendo le cose, chiunque potrà attingervi lo farà, anche se i meccanismi sono farraginosi e i dubbi su come attivarla tanti. Ma bisogna mettere in campo misure forti, decise, neppure lontanamente vicine a quelle fin qui ipotizzate dal governo: le garanzie di Stato e Unione Europea non basteranno a convincere le banche di fronte al rischio-default. A fine mese – preconizza Mareschi Danieli – ci troveremo con un sacco di insoluti, pieni di crediti che non avranno ritorno di cassa».

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Al di là del Tagliamento le preoccupazioni sono le stesse, le tensioni di una giornata d’attesa non si sciolgono neppure in serata. «Sono stato praticamente tutto il giorno in ufficio con i miei collaboratori – risponde al telefono alle sette di sera Michelangelo Agrusti, presidente dell’Unindustria pordenonese – e tra un po’ ci torno: ci sono le telefonate a cui rispondere, i dubbi da tentare di sgarbugliare, il testo definitivo del decreto da spedire, una volta che arriverà».

Sul fine ultimo del decreto Agrusti non ha dubbi: «Gli imprenditori sono i primi a essere consapevoli di quel che sta accadendo, i primi a voler tutelare i propri collaboratori e io sono assolutamente favorevole a ogni misura che limiti il contagio. Però – sospira – stiamo assistendo a una confusione gestionale impressionante: chiudere una fabbrica non è come spegnere l’interruttore di un ufficio. Non si può approvare un decreto domenica sera e chiudere gli stabilimenti il giorno dopo: serviva un provvedimento a tempo, che desse almeno sette giorni di tempo agli imprenditori per organizzarsi».

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intervista di Giacomina Pellizzari

«Non sappiamo ancora se la lavorazione dell’acciaio rientra tra le attività strategiche che possono restare aperte». Nella domenica segnata dall’ennesima stretta del Governo per fronteggiare l’emergenza sanitaria da coronavirus, Chiara Valduga, la presidente del Gruppo Cividale, mentre attende di leggere il decreto arrivato in serata, esprime la difficoltà ad andare avanti in uno scenario a dir poco preoccupante. «Al momento non abbiamo informazioni chiare, non sappiamo cosa dire agli operai. E anche nel caso scattasse la chiusura, abbiamo bisogno di due, tre giorni per mettere in sicurezza gli impianti. Abbiamo lavorazioni in corso che non possiamo interrompere da un giorno all’altro».

L’imprenditrice, con pacatezza, illustra una situazione complicata, non facile da affrontare anche per le industrie friulane. «Se sabato sera Conte avesse detto “si chiude tra una settimana” sarebbe stato preferibile, ma mi rendo conto che forse non poteva farlo». Conte però ha accolto i suggerimenti ricevuti anche dal presidente nazionale di Confindustria, Vincenzo Boccia, è ha dato il tempo alle aziende di adeguarsi.

Undici aziende produttive in Friuli e all’estero e 1500 dipendenti in Italia, il Gruppo Cividale cerca di fronteggiare uno scenario «preoccupante». Non soltanto per il fatto che a poche ore dalla serrata il decreto era ancora in corso di stesura – «capisco l’emergenza anche se sarebbe stato opportuno avere un po’ più di chiarezza» sottolinea Valduga –, ma soprattutto per il futuro che si prospetta davanti in una Europa tutt’altro che unita. A livello europeo, secondo l’imprenditrice, «manca un coordinamento che consenta di assumere iniziative analoghe in tutti i Paesi».

Un coordinamento che preveda regole uguali per tutti sulla chiusura delle frontiere e pure sullo stop produttivo perché – sono sempre le parole della presidente – «se le chiusure avvengono con tempistiche non sincronizzate rischiamo di trovarci a riaprire quando gli altri chiudono». In quel caso, soprattutto per chi come il Gruppo Cividale, lavora all’estero, la chiusura rischia di prorogarsi ben oltre la scadenza dell’ordinanza del Governo.

Il rischio è concreto. Già ora il Gruppo Cividale sta registrando non poche difficoltà a trasportare e reperire i materiali. «Alcuni fornitori hanno chiuso e non ci consegnano la merce, lo stesso registriamo tra i clienti che, al contrario, non ritirano gli ordinativi». Questo per dire che anche ammesso che le acciaierie vengano considerate attività indispensabili per il Paese, la produzione sarà comunque ridotta.

«Stiamo già risentendo di questa situazione» aggiunge la presidente costretta, nei giorni scorsi, a mettere in ferie alcuni lavoratori. In una sola azienda del gruppo si ricorrerà alla Cassa integrazione. Negli stabilimenti gli operai lavorano in sicurezza. Analoga la situazione negli uffici dove il ricorso allo smart working non è ancora scattato. E di fronte all’ipotesi di dover obbligatoriamente avviare il lavoro da casa per tutti gli impiegati, Valduga fa notare che «serve tempo anche per garantire i collegamenti con il centro di elaborazione aziendale».

La maggior parte degli amministrativi, quindi, è stata sistemata in singoli uffici al fine di evitare contatti tra le persone. Quella di ieri, insomma, è stata una domenica di attesa per la presidente rimasta in stretto contatto con il suo staff e con i vertici di Confindustria locale e nazionale. «C’è molta incertezza» ribadisce la presidente del Gruppo Cividale pensando ai 1500 dipendenti che, ieri sera attendevano ancora di sapere se oggi si sarebbero o meno recati al lavoro.

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intervista di Filippo Tosatto

«Sono estremamente arrabbiato, è inaccettabile che sia l’industria a pagare la leggerezza dei nostri politici e amministratori. Il 22 febbraio, in piena crisi virale, hanno lanciato lo slogan “L’Italia non si ferma”, ebbene, il Paese non si è fermato e siamo giunti a questo punto, con un blocco improvviso e disordinato delle attività produttive e un gravissimo danno d’immagine per le aziende, trattate alla stregua di veicoli del contagio».

Enrico Carraro, l’imprenditore padovano che presiede Confindustria Veneto (la seconda d’Italia con 11.000 imprese e 320 mila addetti) dà voce così alla protesta degli associati, stretti tra l’incudine dello stop forzato e il martello di un contraccolpo micidiale sull’economia.

La stretta alle attività produttive, invocata da più parti, era nell’aria. Perché l’annuncio del premier Conte vi ha sorpreso?
«Perché, sul versante della sicurezza, avevamo concordato con i sindacati e i ministri un pacchetto di misure molto rigorose a tutela dei lavoratori. Le aziende che hanno adottato questi standard, ovvero la grande maggioranza, oggi sono più sicure dei supermercati. Ma il nostro impegno è stato ignorato, non è stata una scelta dettata da esigenze sanitarie ma una decisione politica».

L’obiezione: tutelare l’industria è importante ma proteggere la salute pubblica è prioritario.
«Non sono d’accordo, gli obiettivi vanno perseguiti con la stessa determinazione. È intollerabile che tutte le imprese siano poste sullo stesso piano, a prescindere dai comportamenti. La nostra proposta? Chiudere quelle incapaci di garantire la sicurezza, lasciare aperte le altre. Invece si è agito in ritardo, generando confusione. Io sono sempre stato molto cauto nei confronti del Governo ma l’uscita del presidente del Consiglio, alle undici del sabato sera, è stata improvvida e improvvisata: non si lanciano proclami generici di chiusura delle fabbriche rinviando alla giornata successiva la definizione delle norme. Ogni stabilimento rientra in una filiera, non è un’isola: serviva una valutazione attenta, è mancata totalmente».

Qual è, oggi, il sentiment prevalente tra gli industriali?
«C’è grande fibrillazione, ovviamente. Il timore di finire sul banco degli imputati, come diffusori dell’epidemia, ha già spinto molti a sospendere spontaneamente la produzione. Altri lo faranno presto. Attenzione, però: si profila un problema serio di liquidità. Senza la ricchezza prodotta dalle imprese come farà l’amministrazione pubblica a fronteggiare la spesa straordinaria dettata dall’emergenza? La crisi si annuncia lunga e dolorosa e alla fine, lo dico a tutti noi imprenditori, non potremo presentare la lista della spesa allo Stato perché le risorse per ristorare il danno saranno insufficienti e qualcuno, inevitabilmente, chiuderà i battenti» .

La previsioni degli economisti indicano un contraccolpo pesante anche sul piano occupazionale e il Nordest, dove la vocazione all’export è marcata, rischia di pagare un prezzo elevato.
«La prospettiva è drammatica, tanto più che la concorrenza cinese ha ripreso forza: non c’è soltanto la rinuncia a fatturati temporanei, rischiamo di perdere interi segmenti di mercato internazionale. Non ne faccio una questione di reddito d’impresa: da questi flussi il nostro Paese ricava i mezzi per acquistare tutto ciò che occorre. La domanda interna, quando riprenderà, sarà debolissima».

Qual è, realisticamente, il margine di tenuta delle aziende settentrionali costrette all’inattività?
«Due settimane. Poi tutto si complicherà a dismisura».

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