La lunga notte del 25 luglio ’43
C’era una volta il Duce. Comincia e finisce con queste semplici parole non una favola, ma una storia vera che vede attorno al protagonista un popolo che 70 anni dopo è ancora alla ricerca di un futuro al passo con i tempi, un passo più realistico di quello dell’oca bruscamente troncato nella notte del 25 luglio 1943.
Il fascismo era al potere da vent’anni e in quel lungo periodo aveva mandato gli italiani a respirare l’aria dell’Africa, della Spagna, della Francia, della Grecia, dell’Albania, spingendoli infine nel gelo delle terre russe. Aveva fatto credere che fossero un popolo di conquistatori, deciso a dettare le regole nel mondo. Quasi tutti gli avevano creduto, perché al comando c’era il Duce, che dal balcone di palazzo Venezia a Roma mostrava la mascella per nascondere le incertezze che pure in cuor suo aveva.
Su tutti i fronti l’esercito italiano mangiava polvere e per trangugiare l’amaro calice delle sconfitte non bastavano le lodi e le medaglie ai generosi soldati che perdevano la vita per una illusione. Mussolini era entrato nella partita aperta da Hitler nella convinzione che la guerra si risolvesse rapidamente e senza un prezzo eccessivo da pagare; in qualche circostanza aveva invece dichiarato che non sarebbe potuto rimanere estraneo al conflitto, pena conseguenze disastrose per l’Italia; però il Führer in più di una occasione aveva cercato di evitare l’alleanza con l’Italia, giudicata inaffidabile.
E in effetti, Hitler non aveva torto: intorno a un Mussolini baldanzoso, si muovevano personaggi di alto livello che non condividevano alcune sue decisioni, soprattutto quelle dei rapporti con la Germania. Negli anni di pieno potere il Duce fu preso apertamente di mira con una serie di attentati, dai quali per altro non ebbe gravi conseguenze. Il primo tentativo di colpirlo maturò in Friuli nel 1924 ed ebbe come ideatore Tito Zaniboni, un mantovano ex ufficiale degli alpini, amico del Duce, deputato socialista non rieletto.
Assieme a un gruppo di antifascisti della zona collinare di Buia, il 4 novembre affittò a Roma all’hotel Dragoni una camera le cui finestre da piazza Colonna davano su palazzo Chigi; sul balcone all’ora fissata sarebbe dovuto apparire Mussolini per tenere il discorso celebrativo della vittoria nella prima guerra mondiale e in quel momento, appunto, sarebbe dovuto partire il colpo mortale di fucile; Zaniboni stava per premere il grilletto quando la porta si spalancò, quattro poliziotti fecero irruzione e arrestarono gli attentatori. Era accaduto che uno dei friulani, Carlo Quaglia, aveva informato della trama la polizia, facendo così sfumare il progetto.
Negli anni successivi il Duce fu ancora nel mirino una decina di volte, ma soltanto in una circostanza fu leggermente ferito da una pallottola di pistola che gli graffiò il naso. Questa serie di attentati indussero Mussolini a varare nuove leggi definite “fascistissime”, con le quali diede un’altra stretta alle libertà. L’opposizione al regime cercò di organizzarsi all’estero, principalmente in Francia e in Svizzera, ma non riuscì a impos. tare un’azione efficace per indebolire o porre fine alla dittatura in Italia.
L’avversione al fascismo covava e si acuiva ogni qual volta le tragiche vicende belliche causavano tragedie familiari, danni alle proprietà, distruzioni di beni. Nel fatidico anno 1943 fu la guerra di Russia a diffondere la consapevolezza che l’Italia era ormai travolta dagli eventi. Furono 75 mila i soldati che non fecero ritorno. Nella notte tra il 9 e il 10 luglio l’armata americana al comando del generale Eisenhower iniziò lo sbarco in Sicilia senza trovare resistenza da parte dei militari italiani che di fronte al nemico si diedero a una vergognosa fuga. «Un giorno dimostrerò – disse Mussolini – che questa guerra non si poteva e non si doveva evitare, pena il nostro suicidio».
Il segretario del partito, Scorza, telefonò a tutti i componenti del Gran Consiglio per convocarli a palazzo Venezia sabato 24 luglio alle 17, «indossando sahariana nera e pantaloni grigioverdi». Dino Grandi preparò, sulla falsariga di appunti scritti due anni prima, un ordine del giorno che prevedeva il ripristino dei meccanismi costituzionali, attraverso un’azione politica che non avesse alcun fine rivoluzionario. Il documento proponeva «l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni le responsabilità derivanti dalle nostre leggi statutarie e costituzionali» e invitava «il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re di assumere con l’effettivo comando delle forze armate, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono».
Il Duce aveva ricevuto con due giorni d’anticipo il documento e lo aveva giudicato con due parole: «inammissibile e vile». Mentre Grandi raccoglieva le adesioni, Mussolini andò a rapporto dal re, il quale cercò di spiegargli che la sua persona ormai ostacolava la posizione politica e militare dell’Italia, facendogli così intendere che in qualche modo l’avrebbe rimosso. «Mi pareva di parlare al vento – disse poi Vittorio Emanuele –, o non ha capito o ha fatto finta di non capire». A sua volta, il Duce si compiacque dell’incontro, dal quale ebbe la convinzione che il re era «il suo migliore amico».
Nel pomeriggio del 24 luglio il caldo di Roma era implacabile. I convocati alle 17 in punto presero posto nella sala attigua a quella del Mappamondo, il Duce entrò un quarto d’ora dopo e rifiutando i convenevoli cominciò subito a parlare. «Io sono l’uomo – disse con voce calma, con tono rassegnato – più detestato, anzi odiato d’Italia, il che è perfettamente logico; la verità è che nessuna guerra è popolare all’inizio: lo diventa se va bene e se va male diventa impopolarissima. Non ho alcuna difficoltà a cambiare uomini, a girare la vite. Nel 1917 furono perdute province del Veneto, ma nessuno parlò di resa, allora si parlò di portare il Governo in Sicilia; oggi, qualora fosse inevitabile, lo porterò nella valle del Po». Al termine del discorso durato due ore, pose il dilemma: guerra o pace? Capitolazione o resistenza?
Seguirono interventi, ma nessuno di particolare effetto, a eccezione del segnale di un sotteso contrasto tra Galeazzo Ciano, che criticò l’azione e il comportamento della Germania nel conflitto, e Roberto Farinacci, che aveva più volte esternato la sua grande ammirazione per i tedeschi. Alle 2.30 si iniziò la votazione che si concluse con 19 sì, un astenuto e 8 no all’ordine del giorno di Grandi. «Signori – disse Mussolini avviandosi con passo stanco all’uscita – voi avete aperto la crisi del regime».
Questa volta il Duce non sbagliava. Il fascismo era finito. La grande maggioranza degli italiani esultò, animata da due convinzioni: che la guerra fosse finita e che soffiasse una nuova aria di libertà. Purtroppo lo scontro sarebbe durato ancora due anni, ponendo di fronte sulla nostra terra non soltanto due eserciti stranieri – l’americano e il tedesco – ma, peggio, italiani contro italiani in una guerra civile di cui c’è ancora chi porta segni fisici e morali.
La svolta decisiva del 25 luglio non era maturata all’improvviso; gran parte degli italiani non aveva condiviso la decisione di entrare in guerra a fianco della Germania, nonostante ogni apparizione del Duce fosse sempre stata salutata da ovazioni di consenso.
Quando, la mattina del giorno dopo, l’Italia si svegliò, esplosero i sentimenti sopiti per tanti anni: le immagini del Duce furono stracciate, le statue demolite, gli appelli e gli ordini sui muri cancellati, per le strade, soprattutto a Roma, si respirava un’aria festosa alimentata più dalle illusioni che dalla realtà: la defenestrazione del Duce, infatti, avrebbe subito provocato contrapposizioni profonde tra gli stessi italiani, con l’istituzione della Repubblica Sociale imposta da Hitler da una parte e le organizzazioni partigiane coordinate dal Comitato di liberazione nazionale dall’altra.
A questo appuntamento decisivo della storia, il Friuli ebbe all’inizio un ruolo marginale. La caduta del Duce non suscitò qui grandi esternazioni di giubilo, anche se in precedenza non erano mancate manifestazioni antifasciste, sollecitate però non tanto da motivi ideologici, ma da ragioni pratiche, cioè dalla miseria e dalla fame che ne derivava.
All’inizio della guerra nella provincia di Udine risultavano costituiti 171 fasci di combattimento, suddivisi in 874 nuclei, che però non furono efficaci nell’indurre l’opinione pubblica a condividere i piani del regime. L’economia si basava principalmente sull’agricoltura, che consentiva ai contadini un magro reddito, taglieggiato dalla consegna obbligatoria di una parte del prodotto per esigenze di guerra.
Nonostante le drastiche misure e le conseguenti ristrettezze, in Friuli Mussolini aveva avuto molti seguaci, probabilmente perché si era intrattenuto più volte con la popolazione locale: nel castello di Udine aveva pronunciato il discorso che accennava all’entrata in guerra, a Redipuglia aveva inaugurato il sacrario voluto dal fascismo in ricordo dei caduti della grande guerra, a Torviscosa aveva bonificato l’area di Zuino e costruito ex novo un paese inaugurato nel 1937; caporale dei bersaglieri nel 1917 rimase ferito sul Carso e anche per questo si sentì sempre legato alla terra di confine. I rapporti con la Germania erano particolarmente sofferti nella società rurale friulana ed erano le donne a pagare il prezzo più duro, con i padri, i mariti e i figli disseminati sui campi di guerra. Furono le donne a improvvisare alcune manifestazioni di protesta a Udine e in due paesi della Val Natisone. «Duce, Duce, pagaci la luce; Benito, Benito, pagaci l’afito» (senza lettere doppie, per ragioni di metrica...): era la contestazione più popolare, oltre non si andava.
Le vicende di Mussolini dopo la liberazione nel Gran Sasso e quelle del fascismo rinato a Salò coinvolsero il Friuli in maniera drammatica; qui si pagò un altissimo prezzo per avviare la nascita della nuova Italia, che cominciò nella notte di 70 anni fa e si concluse con la liberazione nei primi di maggio del ’45. Questa, però, è un’altra storia, con qualche pagina onesta ancora da scrivere.
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