La primavera autonomista dell’ultimo dei benandanti

L'autonomismo friulano è come un fiume carsico. Attraversa un po' gli animi e i programmi di tutti quanti fanno politica dalle nostre parti.
Perché la diffidenza nei confronti del potere centrale è sempre un tasto sensibile nel carattere dei friulani. Da questo alla capacità di dargli voce e concretezza però ce ne passa.
Ecco allora che i 23 mila voti portati a casa dal professor Sergio Cecotti, in una tornata stradominata dal triestino Fedriga alla testa della Lega (approdata per la prima volta in regione a quote da vecchia Dc), rappresenta un esito per nulla marginale.
In modo sommesso si riaccendono gli scenari di mezzo secolo fa quando, nel maggio del 1968, il Movimento Friuli capitanato dall'ingegnere pontebbano Fausto Schiavi debuttò con il 5% grazie a 39 mila preferenze.
Tempi diversissimi dagli attuali, segnati da rivoluzioni ovunque, compresa quella avvenuta nel mondo locale dopo la crociata per dare a Udine la facoltà di Medicina, poi destinata a Trieste.
In piazza scesero gli studenti, i preti, alcuni primari, molti insegnanti, varie anime che confluirono in quello che diventò il Movimento Friuli, aiutato alle elezioni dalla clamorosa esclusione dei socialisti per vizi di forma e dal fatto di aver dato battaglia aperta a tutti i partiti, di maggioranza e opposizione (neppure il Pci si schierò per l'università friulana).
Risultato storico quello del 1968, mai ripetuto in seguito in quanto, dopo Schiavi, a lungo non emerse una figura carismatica, capace di coagulare il vivace e animoso universo autonomista.
Di ciò approfittò soprattutto la Democrazia Cristiana, non per niente chiamata “Balena Bianca”.
Dentro il suo corpaccione sapeva metterci tutto e il contrario di tutto. La sua anima friulanista era interpretata da Alfeo Mizzau, detto Feo di Bean, che polemizzò nel 1990 con il professor Gianfranco D'Aronco quando questi, all'apparire di Bossi, affermò (pensiero poi rivisto e corretto): “Noi friulanisti un po' delusi traiamo ora conforto dalle leghe. Chissà che rinasca un ideale”.
E Mizzau rispose a muso duro dicendo che la salvezza dei friulani, come popolo e comunità, era solo la Dc, aggiungendo in un empito onirico: “Noi siamo carolingi, concreti, mitteleuropei e le filosofie del pugliese Moro e dell'avellinese De Mita ci sono estranee”. Solamente la Dc poteva arrivare a tali acrobazie dialettiche!
Dopo aver vissuto sotto traccia anni Settanta e Ottanta, l'autonomismo si riaccese con la Seconda Repubblica quando la Lega bossiana (quella della secessione, dei riti celtici, delle manifestazioni in cui inalberava i vessilli di Alberto da Giussano e del Patriarca di Aquileia, personaggi che nella storia vera furono acerrimi nemici) per irrobustirsi ne ereditò uomini, donne, slogan e modalità. Basta ricordare i presidenti della Regione avvicendatisi dal 1993 (Guerra, Fontanini, Cecotti) fino alla conquista di Udine nel '98 da parte di Cecotti alla testa di una strana maggioranza di ispirazione friulanista. Scenario cambiato quando a Roma la Lega entrò in modo organico nel centrodestra, cui è sempre avvinto.
E adesso? Barbagli di “primavera autonomista”, ancora grazie a Cecotti, l'ultimo dei benandanti, come lui si definisce. Ciò significa che, al di là delle proposte, questi progetti devono avere una guida che catturi l'immaginazione, una sorta di autorità morale.
Stavolta il professore se la vedrà in Regione con due triestini (il superman Fedriga e il grillino Fraleoni Morgera) e il pordenonese Bolzonello. Certamente non si annoierà.
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