La scuola non è un pallone da calcio

"Credo in una scuola inclusiva, ma capace anche di valorizzare le differenze e le eventuali eccellenze, per non disperdere le potenzialità e le energie delle generazioni più giovani"
15/05/2020 Edegem, alunni in classe durante la graduale riapertura della scuola elementare Olfa Elsdonk. Oggi le scuole stanno testando la riapertura e ricominceranno per un numero limitato di alunni lunedì 18 maggio.
15/05/2020 Edegem, alunni in classe durante la graduale riapertura della scuola elementare Olfa Elsdonk. Oggi le scuole stanno testando la riapertura e ricominceranno per un numero limitato di alunni lunedì 18 maggio.

UDINE. La scuola non è un pallone da calcio. Partiamo da qui: da un’affermazione semplice.

Partiamo da qui perché mai come adesso la scuola mi è sembrata non solo presa a calci, ma soprattutto strumentalizzabile – e strumentalizzata – a scopi tristemente demagogici. E, nel farne uso strumentale, fazioni opposte sembrano calciarla verso le due porte di un campo che contrappone visioni antitetiche: da un lato, la scuola nella sua funzione di mero servizio sociale a supporto delle famiglie.

Dall’altra, la scuola – o perlomeno l’istruzione superiore, soprattutto professionale e tecnica – nella sua versione eminentemente aziendalistica: mera tappa preparatoria a un ruolo produttivo nel mondo del lavoro.

Allora forse dobbiamo ripartire da qui. Da una domanda. Semplice. Ma la semplicità è spesso punto di approdo – e conquista – di percorsi complessi.

Domanda: qual è la scuola che vogliamo? Quale il modello educativo in cui crediamo e in cui intendiamo investire? Perché nessuna norma e nessun decreto, per quanto dettati da contingenze o emergenze drammatiche, possono prescindere da una visione più ampia e da una chiarezza progettuale complessiva.

Personalmente, credo in una scuola che ponga al centro l’umanità e il pensiero di bambini e bambine, di ragazze e ragazzi. La formazione di un pensiero critico, flessibile, libero.

Credo in una scuola che non si limiti a trasmettere conoscenze e competenze, ma stimoli l’intelligenza e contagi il piacere della conoscenza, in tutte le sue anime: umanistica, scientifica, tecnologica.

Una scuola inclusiva, ma capace anche di valorizzare le differenze e le eventuali eccellenze, per non disperdere le potenzialità e le energie delle generazioni più giovani. Perché dico questo? Per ampliare i confini del dibattito a cui abbiamo assistito in questi ultimi mesi.

Didattica a distanza contro didattica in presenza: parlarne è necessario, ma questo non può essere l’unico elemento di discussione. L’emergenza-scuola – dettata dall’emergenza epidemiologica – deve trasformarsi in occasione per riflettere sulla didattica in senso più profondo e più vitale.

Perché ridurre la didattica ai veicoli utilizzati per la sua trasmissione, o per la sua condivisione, equivarrebbe a ritenere che un ottimo forno microonde basti a garantire un ottimo pranzo.

Parlare di didattica a distanza o in presenza è necessario. Ma insufficiente. C’è bisogno di ripensare al nucleo della formazione dei nostri ragazzi. C’è bisogno di interrogarsi sui contenuti e sui principi ispiratori dei percorsi formativi, l’autentica ossatura del sistema-scuola.

C’è bisogno di riflettere non solo sulla difficoltà della curva che stiamo affrontando – i modi nuovi, digitali, della didattica – ma anche e soprattutto sulla direzione del nostro viaggio – i fini ultimi del modello educativo in cui crediamo–.

Sono entrata nel mondo della scuola giovanissima, negli anni Ottanta. L’ho vista cambiare, oscillare, cercare assetti difficili, essere depauperata di autorevolezza – che non è autorità, ma credibilità nobilitata da fini alti e condivisibili–. L’ho vista diventare un bersaglio più facile della Croce rossa di fronte ad attacchi, spesso interessati, da parte di intellettuali ignari di didattica ma esperti in bacchettate dall’alto, e talvolta chiamati ad assumere decisioni importanti in relazione a un mondo che non conoscono, se non per averlo frequentato come studenti.

Alla presunzione di simili attacchi –che vengono da chi teorizza– preferisco l’umiltà delle domande di chi pratica ogni giorno la scuola.

Domande che forse stanno a cuore a tutti noi. Di cosa hanno bisogno i nostri ragazzi e le nostre ragazze?

Credo abbiano bisogno di formazione in ambiti piuttosto trascurati, eppure essenziali, nel mondo liquido e complesso della nostra contemporaneità.

Ne citerò solo alcuni: la creatività, perché rappresenta la premessa di ogni forma di flessibilità, in ambito umano ma anche lavorativo. L’intelligenza emotiva, perché la nostra società richiederà sfide sempre più connesse all’empatia. L’intelligenza sociale, perché il futuro implicherà, probabilmente, capacità di cooperazione e condivisione inedite.

In fondo, si tratta soprattutto di esigenze che ogni insegnante attento, e impegnato quotidianamente con i suoi allievi, ha messo a fuoco da tempo. In questa ottica, sembrerebbe opportuno ridare dignità e fiducia a un corpo docente, reclutarlo in modo serio, assegnargli la responsabilità di fornire indicazioni di prassi didattica autentica, credibile e vissuta sulla propria pelle.

Perché l’etica della responsabilità individuale, abbinata alla palestra del pensiero, è l’unico vaccino su cui possiamo contare per combattere le facili demagogie, le possibili strumentalizzazioni, la superficialità e i vuoti di una società che sembra disposta a sacrificare le sue generazione più giovani, anziché coltivarne con cura le potenzialità, le progettualità, i sogni personali o condivisi. In una parola: il futuro.


 

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