La Seconda Repubblica sprofondata all’inferno

UDINE. Vapori sulfurei si sprigionano dalle cantine di Montecitorio. A fumigare è l’“infernetto”, la succursale del regno dei dannati che è stato necessario realizzare in fretta, dopo il mutamento di costumi e peccati politici che l’Italia ha cominciato a registrare quattro lustri fa.
Una voragine a gironi ricalcata in scala da quella dantesca, abitata da personaggi senza grandezza. I nuovi peccatori non hanno le corrusche e tragiche colpe cantate dal sommo poeta: l’oscura grandezza del male è sostituita da un egotismo meschino che sembra trasudare dalla società, corrompendola e venendone ricontaminato. Tra il fiero pasto del conte Ugolino, e la bulimia forchettona di Batman Fiorito, è innegabile che qualche distanza c’è.
Di questo parla . L’inferno. La commedia del potere, opera in terza rima scritta da Tommaso Cerno, già firma di questa testata e oggi de l’Espresso, che Rizzoli manda in libreria oggi, con il corrosivo tratto di Makkox al posto delle incisioni di Doré (300 pagine, 17,00 euro). Un libro che non si segnala per originalità di modello (i ricalchi e le parodie del poema sacro sono una serqua), né per la perfezione degli endecasillabi (qualche zoppìa metrica, via, la si ritrova), ma per la poderosa capacità di rievocazione e di riassunto rispetto a una realtà mobile, aggrovigliata e convulsa (un bulicame, davvero), cifra e stigma di quella che, con frettolosa superficialità, è stata chiamata Seconda Repubblica.
Nel significare «quel che ditta dentro», come avvenne per Dante, Cerno si fa innanzitutto giudice. Riconfigura Inferno 2.0 secondo un codice di gravità che parte dai “nostalgici del fascismo”, e per i “deflagratori della patria”, gli “infedeli ai maestri”, i “mercanti d’amore”, i “golosi dei beni pubblici”, i “codardi con sé e con gli altri”, i “contestatori di natura”, gli “adulatori e seminatori di discordia” gli “illusi e consiglieri fraudolenti”, i “trascinatori di folle”, sprofonda sino al “pozzo dei traditori”, tre cerchi dove espiano quelli che hanno ingannato quanti si fidavano di loro, i traditori della giustizia e quelli dei popolo.
Cerno viene guidato da una delle tre fiere che gli si parano davanti nei primi versi: il “felino” Forlani, il “mastino” Fanfani e il mai smacchiabile “giaguaro” Andreotti. È proprio quest’ultimo, il “Divo”, a staccarsi dal gruppetto per istradare il giornalista lungo bolge e gironi popolati da una torma di defunti e viventi che si moltiplica poi nelle spiegazioni offerte dalle note a piè di pagine. Diversamente da Dante, infatti, l’autore si fa anche scoliaste, e chiosa meticolosamente i propri versi. Spiegando, e offrendo interpretazioni multiple, in un bizzarro cortocircuito che si accende anche di autoironia, come quando si autosospetta di captatio benevolentiae.
Impossibile citarli tutti, i suoi dannati. Ci sono quelli che uno si aspetta, Prodi e Grillo, Scilipoti e Bertolaso, Berlusconi e D’Alema (vetrioleggiato, questi, da un «Massimo è di nome e non di fatto / scelse una sinistra godereccia / che mai negò al mio re di fare un patto / e di tenersi lo potere suo / pure con quel conflitto grande in atto»). Ci sono quelli davvero inattesi come Violante, Ingroia, De Magistris, e, a sorpresa, uno straniero quale Maradona (per la nota manita de Dios, cosa che induce sospetti di anglofilia del poeta). E ci sono personaggi oggi pressoché dimenticati, come Di Bella e Cusani.
Tutti scontano la pena con il contrappasso: Bossi risale il Po, Fede è imprigionato nel piccolo schermo, Veltroni si arrampica su una corda infinita, Scajola costruisce una casa, in piena consapevolezza; e tutti dicono le loro verità con un linguaggio spesso criptico, che Cerno dipana tra la ricostruzione storica e il gossip, concedendosi ogni tanto qualche folgorante immagine (definisce l’Italia il «Paese che tutti raccomanda» e, a proposito dell’indipendenza di cui dispongono i giornalisti Rai, nota «perché in tv fa buon sol Galeazzi»).
Come il sommo poeta, poi, visita nell’aldilà persone (poche) di cui parla bene. I citati “contestatori”, per esempio, che nulla hanno a vedere con il ’68, ma con il mondo gay, tanto presente in politica, e tanto alieno dal coming out («e se soltanto oggi spirano venti / allo favor di questa nostra vela / abbiamo sì boccon, ma pochi denti»), con il giganteggiare di un Pasolini che vale Farinata degli Uberti.
Troviamo, nel poema, personaggi rimbalzati da più alti livelli, come l’Avvocato (par di capire che nessuno degli Agnelli andrà all’inferno, tranne, forse, Lapo, ma con Marchionne, come la mettiamo?). E fa una gran bella figura quel Matteo Renzi, la cui compiaciuta e un po’ ondivaga descrizione lascia trasparire la simpatia di Cerno. Il quale lo ammonisce, sì, a non rottamare tutti gli antichi ottimati («vuoi dir che ladri / son anche Sturzo tuo o quel Pertini / che nutriron l’Italia come madri?»), facendo parlare Prodi; ma poi prosegue: «Ma quel giovin signor pare sincero / vien dalla patria di Fiorenza e vola / come, sopra li monti, uno sparviero». Si augura sia fatta «strada / al giovin gentiluomo / che grande ti ha cantato poco pria», «Perché Matteo, se non farà lo gnomo / potrà cambiar la rotta a questa nave / di cui nocchier sarà, non più nostromo!».
Vogliamo trovare un’assenza? Beh sì, quella della Chiesa: difficile negarne l’influenza esercitata sulla politica italiana, ma del Vaticano non si dice quasi nulla. Del resto Dante, che aveva osato preconizzare la damnatio di Bonifacio, era stato già ridotto a «pellegrin fuggiasco».
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