La solidarietà friulana e quella concretezza che ci rende "speciali" - Il commento
Le chiacchiere, dalle nostre parti, hanno le gambe corte. La concretezza ci rende “speciali”, questo sì, al di là della solita retorica e della specialità fatta di parole.
Sarà quel “dna” che è stato trasmesso di generazione in generazione, quella necessità di sopravvivenza che ha fatto di un popolo e di una terra un treno con una marcia in più. Quel treno sul quale migliaia e migliaia di friulani sono saliti per andare in cerca di fortuna in giro nel mondo, scappando dalla fame.
Un treno che ha deragliato quando in Friuli si è scatenato il terremoto; un treno sul quale, volenti o nolenti, si sono accomodati tutti, stringendosi e restando anche in piedi durante il viaggio, per rimettere in moto la locomotiva subito dopo quel 6 maggio 1976.
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Potremmo abbondare in retorica, da “fasìn di bessôi” a “Il Friûl al ringrazie e nol dismentee”, all’abusata “isola felice”. Tutto vero. Frasi brevi e dal contenuto pregnante, che danno un’idea di quel che siamo anche oltre i confini.
A Sarnano, il premier Gentiloni inaugurando la scuola assieme alla presidente Debora Serracchiani ha sottolineato: «La scuola è bellissima e i bambini potranno crescere con un’ottima qualità della vita. Credo che questa inaugurazione sia un messaggio di speranza per le popolazioni colpite dai terremoti. È altrettanto importante la voglia di reazione delle comunità». È «un esempio di Italia che funziona e che traduce le sue particolarità in straordinaria forza», ha aggiunto. E ricordando il contributo del Friuli Venezia Giulia, colpito dal sisma nel ’76: «In Italia siamo affezionatissimi ai campanili, sono convinto che quando i campanili si abbracciano, e lavorano per costruire, la solidarietà è straordinaria».
Siamo anche schivi e imbarazzati di fronte a troppi complimenti. Quarantuno anni fa conoscemmo il mondo che ci tese la mano. Anche qui ci fu chi venne a costruire le prime scuole e i primi centri per anziani.
Quei gesti di aiuto, di sostegno, di partecipazione sono diventati la nostra tradizione che a ogni necessità si tramuta in atti di riconoscenza, perché conosciamo profondamente quelle sofferenze. Non siamo qui a dire che siamo meglio o peggio di altri. Siamo così, friulani. E nelle emergenze diamo il meglio di noi stessi.
Padre David Maria Turoldo, nel 1980, nel libro “Mia terra, addio...” e in particolare nel capitolo “Da tempo la terra trema” scriveva che il terremoto «ha distrutto la nostra terra e ha sepolto forse per sempre un tessuto di civiltà millenaria». Sul tema della rinascita descrisse con queste parole il suo popolo: «Una ricostruzione, per essere vera, perché sia segno di civiltà e abbia un valore, non può essere regalata.
Una cosa la si deve fare con le proprie mani, allora la si ama. Una civiltà senza amori non è più una civiltà. Importante è inserire il tutto, anche l’inevitabile caos del dopo-terremoto, dentro il grande fiume della nostra storia e sentire subito che la ricostruzione o sarà globale, e cioè o coinvolgerà avanti tutto la stessa cultura friulana, o non sarà una vera ricostruzione. Non si costruisce nulla di buono, non si fa nulla impunemente, a prescindere dalla gente».
Ecco, nell’abbraccio agli amici di Sarnano è contenuto anche questo sentimento.
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