La storia della strada del passo di Monte Croce Carnico: dal primo tracciato romano alle ipotesi di un tunnel
Una frana rocciosa ha interrotto l’arteria il 2 dicembre: viene in aiuto un libro scritto dall’ex senatore friulano Diego Carpenedo
«Prima conoscere, poi discutere, poi deliberare». Lo sosteneva Luigi Einaudi nel 1955. Un messaggio che la politica, in più occasioni, ha dimostrato di non aver del tutto recepito. E così può ancora capitare che prima si deliberi, poi si discuta, infine si conosca.
Per rimettere le cose nel giusto ordine, volendo calare questa massima al caso di Monte Croce Carnico, dove una frana rocciosa ha interrotto l’arteria il 2 dicembre, viene in aiuto un libro scritto dall’ex senatore friulano Diego Carpenedo, dal titolo “La strada di Monte Croce Carnico”.
Un volume agile, di un’ottantina di pagine, pubblicato per il Circolo culturale Enfretors di Paluzza nel 2019, che appare ancora molto attuale.
Innanzitutto perché aiuta a conoscere, approfondendo la storia della strada che conduce al passo, la sua evoluzione, la sua valenza strategica per il transito di merci e persone.
Si fa riferimento anche al traforo incompiuto tra valle del Bût e valle del Gail, di cui si parla dagli anni Cinquanta, destinato, visti i costi e lo scetticismo carinziano, a restare un sogno nel cassetto. «Quand’è che l’uomo ha messo piede per la prima volta sul passo di Monte Croce Carnico? Come comincia questa storia?».
È l’incipit del libro di Carpenedo, che non si ferma alla domanda, ma fornisce anche la risposta: «Tra 8 e 10 mila anni fa, nella preistoria per dirla nel modo giusto, durante il Mesolitico. Non ci sono testimonianze dei primi passaggi umani sul passo. Nel pianoro dei Laghetti sono stati rinvenuti alcuni manufatti in selce scheggiata riferibili al Mesolitico, segno evidente della frequentazione di quel luogo da parte di cacciatori».
Il tempo scorre e prima i Veneti, poi i Romani, capiscono la necessità di dover creare un collegamento stabile con Monte Croce. «L’importanza del passo crebbe a dismisura con l’arrivo di Roma nell’Alto Adriatico, quando il valico cominciò a essere utilizzato per collegare Aquileia con l’Europa centrale in maniera più diretta. I romani resero la strada carrabile», è la sottolineatura di Carpenedo, che rivela i diversi tracciati dell’epoca, scoperti grazie alle incisioni presenti nella Valle del Bût.
Caduta Roma, la strada verso il passo cade nel dimenticatoio, per tornare in auge con lo scoppio della Grande Guerra. Con il fascismo si decide di costruire un nuovo tracciato, tra il 1930 e il 1933, rimasto sostanzialmente in uso fino allo scorso dicembre.
Oggi si riparla di dar vita una nuova arteria, sfruttando il versante opposto rispetto a quello attuale, come in parte fecero i romani e come si tentò di fare anche negli anni Venti, prima di dover rinunciare per l’eccessiva esposizione «alla vista da posizioni di oltre confine».
Carpenedo torna sull’ipotesi tunnel transfrontaliero, inizialmente pensato come strumento per dar vita a una «direttissima Trieste-Monaco».
Un progetto mai decollato, anche per l’ostilità di molte componenti della società carinziana.
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