La svolta di Manzon: giudice pordenonese entra in Cassazione

Da vigile del fuoco, un consiglio gli ha cambiato la vita: «Era il mio destino. La qualità più importante? L’equilibrio»

PORDENONE. Dalla facoltà di giurisprudenza alla Cassazione. Ora è ufficiale: il magistrato Enrico Manzon, pordenonese da generazioni, è il primo “figlio” di questa città a essere nominato giudice della Suprema Corte.

Con aria tranquilla sorride mentre riceve i complimenti di tante persone. Conserva la stessa disponibilità con cui è conosciuto da sempre. A volte la vita porta con sé il filo di un destino. «Avevo scelto di intraprendere gli studi in giurisprudenza senza un disegno preciso. Mio padre, una delle persone più importanti della mia vita, mi diceva sempre di fare quello che sentivo.

Oggi, penso sia stato proprio così: ripensandoci, mi rendo conto di aver potuto seguire la mia vera vocazione. Questo è l'unico lavoro che potevo fare nella mia vita, decideranno gli altri se bene o male. Come in un gioco di matrioske, un elemento mi ha condotto all'altro. Infatti, pensavo di seguire la carriera accademica, poi facendo il militare nel corpo dei vigili del fuoco durante il terremoto un collega (il giudice Gaetano Apierto) mi suggerì di fare il concorso in magistratura».

Un altro tassello del destino...

«Sono arrivato qui nel giugno del 1984, scegliendo la sede di Pordenone (cosiddetta “disagiata”) che privilegiava i residenti da più di 5 anni. Quando andrò via, saranno passati 31 anni. Resterò comunque a Pordenone, perché il lavoro in Cassazione permette di svolgere solo alcune udienze, concentrate in un mese. La preparazione delle udienze e la scrittura delle sentenze è una parte importante di questo ruolo. La Corte di Cassazione è uno degli uffici più impegnativi con 60mila procedimenti penali e 35mila civili».

Come è cambiato il senso di giustizia dai tempi di Mani Pulite a oggi?

«Siamo passati di scandalo in scandalo. Non esiste possibilità di contrasto se non parziale della corruzione poichè il problema è l'etica pubblica. Molte situazioni dei nostri giorni sono incomprensibili per gli altri paesi europei avanzati. Il problema è la cultura della legalità che implica il rispetto della legge, a sua volta, legato a un principio etico. Pordenone, dal punto di vista criminale, è ancora un’ “isola felice”. Gli ultimi episodi di cronaca, pur sanguinosi, sono sempre accaduti.

A suo tempo sono stato il primo gip (giudice per le indagini preliminari), quando fu introdotto il nuovo codice di procedura penale e in quella veste ho trattato quattro o cinque casi, ma anche allora si trattava di fenomeni e crimini isolati. Ben diverso, il fatto di dover arginare la criminalità delle organizzazioni. Il nostro è un tessuto sociale integro dove l'incidenza dei reati è moderata. Il lavoro qui è legato soprattutto al campo civile economico.

Purtroppo la crisi ha picchiato duro su questo territorio. Nel ’93 ho smesso con l'attività penale. In realtà, sono importanti anche le condizioni economiche. Dove lo Stato non è forte e l'economia è debole, è facile che sia diffusa un’etica pubblica meno solida ed è diffusa l'infiltrazione di organizzazioni criminali».

Nel frattempo, il rapporto di fiducia tra la collettività e l'istituzione giudiziaria sembra essere cambiato in peggio.

«Oggi, il cittadino pretende una risposta di giustizia rapida, efficace e giusta. Attualmente, mancano 1500 magistrati in pianta organica, il 20% della forza globale. Una riforma della giustizia è possibile: occorre un piano lucido e pluriennale con un respiro nel medio periodo. In quattro o cinque anni si può rivoluzionare il sistema».

Per finire, quanto pesa la sentenza per un giudice?

«All'inizio di più, come anche in alcuni casi particolari ad esempio, quando si parla di minori e soggetti deboli. Il giudice deve agire sentendosi a posto con la coscienza e allo stesso tempo, con la maggiore professionalità possibile. La qualità più importante per un giudice è l'equilibrio, anzi, ne è il pre requisito».

Oggi a un ragazzo consiglierebbe questa strada? «E un percorso lungo, a ostacoli, le condizioni di lavoro sono più difficili che in passato, ma sono proprio queste le ragioni che potrebbero motivare un giovane: impegnarsi per una missione che vuole riportare la giustizia quale primo obiettivo della comunità».

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