La tragedia di Michele scuote le coscienze, le lettere dei lettori

Gentili lettori, in questo articolo è stata precedentemente pubblicata una lettera attribuendola alla fidanzata di Michele. Potrebbe essere un fake. Non lo sappiamo, perché non abbiamo parlato con lei. Come è andata: ci ha scritto via mail una persona con nome e cognome qualificandosi come fidanzata del ragazzo, sostenendo di aver avuto il contatto direttamente dalla madre. L'abbiamo pubblicata senza ulteriori verifiche. Ci siamo fidati e abbiamo commesso un errore. Ce ne scusiamo pubblicamente.
Qui pubblichiamo una serie di lettere inviate al Messaggero dai lettori sulla tragica vicenda di Michele
* * *
E' riuscito a imporre una riflessione
Leggere la lettera ti spacca il cuore e impone più di una riflessione.
L’analisi descritta da quello che era un nostro concittadino è lucida, ponderata e razionale. Impossibile alzare le spalle e cavarsela con un sincero quanto superficiale “povero ragazzo”.
Non so che volto avesse Michele, ma io non credo all’etichettatura di un ragazzo uscito di senno, tesi avvalorata dalla decisione dei genitori di rendere pubbliche le sue ultime parole. Il ragionamento alla base è stato quello squisitamente darwiniano della selezione naturale.
Se non c’è posto per me, la conseguenza è l’eliminazione. E se nella giungla della “civiltà” nessuno (di solito) ti toglie tangibilmente la vita, allora tanto vale autoinfliggersi la condanna. Ma la domanda è: perché nonostante l’evoluzione ci ritroviamo in una società darwiniana? Perché il “mors tua vita mea” deve essere l’unico linguaggio nazionale? «Non è questo il mondo che mi doveva essere consegnato».
Qual era il mondo che volevi vivere? Qual era l’Italia in cui avresti continuato a camminare con dignità?
Forse rileggendo solo alcune delle tue parole impastate di rabbia, lacrime e disperazione, avresti vissuto in un’Italia dove le tue risorse fossero state adoperate e non semplicemente “sfruttate”, forse saresti invecchiato volentieri in un paese che ti avesse teso una mano e non solamente critiche, forse avresti sorriso in un mondo che non insultasse i sogni non monetizzabili o non deridesse la sensibilità tacciandola subdolamente di fastidiosa debolezza.
Forse avresti accettato di incontrare ancora l’amore in un’Italia che avesse “sì” da offrire, ma senza tornaconti o almeno prodigo di alternative o soluzioni ai tuoi ostacoli.
O forse avresti sperato ancora di rialzarti incontrando gli occhi vitali di un bambino. Forse avresti riabbracciato la vita se anche solo uno dei tuoi amici giudicati da te migliori avesse azzerato i confronti o i conflitti, invitandoti a prenotare insieme una bella settimana in un posto assolato, magari low cost, ma high relax, oppure semplicemente ti avesse preparato spesso una pasta da “fine del mondo”, quella fine sì che forse ti avrebbe riscaldato il cuore.
Michele voleva senza alcun dubbio imporre riflessioni simili al numero più ampio di persone perché in fondo credeva nella gente. Altrimenti non avrebbe scritto parole piene di rabbia per “imporre” ad altri la sua assenza. L’assenza per esistere deve essere notata da qualcuno.
Voleva che intorno a lui la gente si fermasse, perdesse un treno, ritardasse un appuntamento o alzasse semplicemente la cornetta per parlare di “futuro”.
Per condividere con lui un'idea di avvenire diverso da quell’«incubo di problemi» in cui la sua mente si era avviluppata ormai da chissà quanto tempo per mancanza di treni persi, di appuntamenti ritardati o di cornette mai alzate. E allora avrà pensato in giorni scuri, seppur in altri termini: se le lancette umane intorno al mio mondo corrono tanto fredde e inesorabili tanto vale rompere l’orologio: «ovviamente non è più un mio problema».
E se il tempo non si ferma, allora lo uccido.
In questo modo, e forse solo in questo modo, Michele è riuscito a imporre un pensiero sulla precarietà ai suoi vicini e a chiunque ha avuto tempo e occasione di leggere le sue ultime riflessioni.
Queste parole su una bacheca digitale scorrono verticalmente via, veloci, senza troppa attenzione, ma se c’è qualcosa che questo ragazzo avrebbe voluto, più di ogni altra, chiedere a noi uomini e donne che scegliamo quotidianamente la vita è: qual è il modo dignitoso di vivere il futuro? Qual è la speranza per un futuro dignitoso in un Paese che rigetta chi si impegna a essere una “brava persona”?
È una domanda posta a un ministro del Lavoro che dovrebbe fare dell’inserimento lavorativo dei cittadini italiani il suo principale scopo di vita professionale.
Ma è una domanda a cui nessuno si deve in fondo sentire estraneo. Che cosa faccio io per migliorare non soltanto il mio futuro, ma anche quello delle persone che mi circondano?
Non nasciamo tutti Maria Teresa o Mahatma Gandhi, ma un giorno in una lettera datata 1942 una donna tenace
di nome Simone Weil ha scritto: «L’attenzione è la forma più rara e più pura della generosità».
E allora, caro Michele, che troppa poca attenzione purtroppo hai ricevuto in vita, ti dedico queste parole sperando in qualche modo di essermi fatta portavoce della tua infinita sensibilità.
Elisa Capobianco
Anche i giovani hanno colpe
Tutto molto giusto: un giovane uomo si suicida perché non ha il lavoro che desidera e scoppia l’urto di accuse. Ovviamente la maggior parte sono commenti alla “governo ladro”, “sistema bastardo” e “povera vittima”. Non voglio tentare neanche per un graffio di secondo di commentare il gesto di chi se n’è andato perché non ne ho né il diritto né l’interesse.
Quello che mi preme dire, invece, è che io non mi sento follemente arrabbiata solo con un “sistema” generico, impersonale, intangibile; io mi sento arrabbiata col sistema reale, e mi dispiace sottolinearlo, ma del sistema reale fanno parte anche tutti quei miei coetanei che adesso puntano il dito verso un responsabile invisibile. Siamo tutti responsabili. Tutti: dal primo all’ultimo, e non solo chi arriva nei palazzoni con le auto blu.
Partecipo più o meno attivamente alla vita di questo Paese da quando avevo 15 anni, ora ne ho 25 e sono già stanca e amareggiata e stufa. Non dalla classe politica, ma dalla mia generazione.
Sì, lo sono anche dalla prima categoria, però da quella te l’aspetti, dalla seconda no. Ero rappresentante del mio liceo e organizzavo conferenze a cui non veniva nessuno perché «meglio i tornei di calcetto e pallavolo». Alle manifestazioni talvolta un po’ di gente c’era, ma il più delle volte per saltare scuola o per vivere un pizzico di quell’atmosfera sessantottina di cui abbiamo sentito solo parlare.
Poi sono cresciuta e ho iniziato ad andare all’università e ad altri incontri pubblici: sulla questione dell’acqua, conflitti vari, giornalismo, crisi giovanile, complesso di Telemaco, Costituzione italiana… indifferente l’argomento, c’era sempre una sola costante: ero l’unica (o quasi) a non avere la testa grigia. I miei coetanei non ci sono mai, li si vede in massa solo quando c’è da fare aperitivo.
Al festival di Internazionale ho assistito a un incontro sul (non) futuro giovanile in cui l’attempato relatore si è consumato in un sentitissimo mea culpa perché loro, i nostri nonni, ce l’hanno rubato, il divenire. Beh, questa frase fatta sortisce come unico effetto quello di assecondare il nostro volerci sentire vittime. Magari in parte lo siamo, ma non possiamo usare questo come scusa per redimerci dalla responsabilità di costruire quello che vogliamo. Non abbiamo una coscienza sociale, questo è il vero problema.
Ognuno è a testa china sulla propria strada, in mezzo a smartphone, ambizioni, menefreghismo. È una grossa generalizzazione, sicuramente, ma che siamo imbottiti di un individualismo spesso quanto le nostre speranze è innegabile.
Spesso ho fatto la pendolare coi miei colleghi di studio, ed è stato sempre un penoso lungo viaggio fatto scivolando sulla superficie delle cose. Uno solo l’argomento di conversazione, puntuale: l’esame e la mole di studio. Non riesce a preoccuparsi d’altro se non dei suoi problemucci quotidiani, questa nuova maggioranza; compresa la più istruita, “l’élite”.
Gente che anche quando si lamenta perché il libro scritto (e inflitto) dal professore non è nemmeno in italiano corretto e a studiarlo ci si sente presi per il sedere, sorride compiacente all’autore perché c’è un voto da portare a casa.
Una persona molto cara a me (laureata) aveva trovato un posto in cui veniva pagata cinque euro all’ora (a nero) come responsabile di sala, e se avesse voluto bere o mangiare qualsiasi cosa avrebbe dovuto pagarlo a prezzo intero. «Non andateci», ho detto ad alcuni amici; «Non dobbiamo sostenere il nostro sfruttamento». «Mi dispiace, ma la birra lì è buona!», mi hanno risposto. Stesso tipo di risposta quando ho riportato il medesimo suggerimento per un’altra situazione analoga di sfruttamento voucheriano giovanile.
Quindi la riflessione prima ancora che ai poteri forti spetta noi. Noi abbiamo la forza fisica, mentale e anagrafica per proporre e reggere uno scontro tangibile con questa realtà. La società noi si fa da sola, e in questo momento noi giovani stiamo lasciando che subisca se stessa.
Noi abbiamo il diritto e il dovere di partecipare, di creare un tessuto, al posto di un pettine di fili paralleli, destinati a non incontrarsi mai. Siamo noi che ci stiamo annegando a vicenda. Siamo noi che dobbiamo (ri)costruire per primi un ambiente vitale, vivace, fatto di braccia salde e responsabili.
Chi altri sennò? La cosa pubblica non si fa da sé. Michele s’è ammazzato da solo eppure l’abbiamo ammazzato un po’ tutti, col disinteresse, la critica altero-diretta e l’incapacità di essere un gruppo. Sinergia, questa dovrebbe essere la parola d’ordine per arrivare tutti da qualche parte. Sempre che ci interessi.
V.A.S.
Ucciso dal cinismo del mondo
Sento il bisogno di dire che si può evitare di cadere nella spirale di delusione e rabbia che ha condotto quel giovane a togliersi la vita. Da parecchi anni “non lavoro” più, se per lavoro si intende essere dipendente di un’azienda o avere un’attività autonoma.
Faccio volontariato con due associazioni in cui mi occupo di accompagnare persone anziane o malate verso luoghi di cura, in quanto non hanno nessuno che le possa aiutare. Sono aiutato dagli amici, senza i quali probabilmente non ce la farei. A mia volta aiuto una persona che sta peggio di me. Vedo che aiutare il prossimo paga, perché non si viene mai lasciati soli a sé stessi. Quello che ha ucciso quel giovane è stato sicuramente anche il cinismo di questo mondo, che non dà a tutti la possibilità di realizzarsi.
Paride Antoniazzi
Un sacrificio che resterà tale
La lettera del ragazzo che ha scelto di immolare la propria vita per non essere un fastidio per questa società dovrebbe essere un monito a tutta quella pletora di politici, di saltimbanchi, portaborse che affollano un sistema che è più preoccupato del proprio futuro che non del presente di questi giovani.
Purtroppo questo sacrificio rimarrà tale, i vari politici non piangeranno per questa morte(i) assurda. Sui vari social si leggono idiozie di ogni genere, firmate da persone che vivono lontane dalla realtà. Affermazioni del tipo: i giovani devono studiare, non cercare un lavoro! Ma dove viviamo? Il fatto è che la realtà invece è fatta solo di interessi che pesano solo sulla comunità.
Helenio Rizz
Vuoto totale delle Istituzioni
Fa riflettere la lettera fatta pubblicare dai genitori di Michele, nel rispetto della sua volontà, affinchè il suo gesto non lasci dubbi sulle motivazioni. Voglio esprimere la nostra totale solidarietà a questi genitori e il grande rammarico per la perdita di una così meravigliosa persona! Ciò si è capito dal testo, per cui non è servito conoscerlo personalmente per arrivare a questa conclusione.
Abbiamo anche noi un figlio di 28 anni che combatte giornalmente contro questo vuoto totale delle istituzioni. Potremmo appellarci alla nostra impareggiabile Costituzione, che ha nel lavoro il suo caposaldo: “L’Italia è una nazione fondata sul lavoro”. Hai voglia ad insegnare ai miei alunni quanto sia importante se poi nessuno la fa rispettare: non vorrei aver creato inutili illusioni!
Mariagrazia Perissin ed Enzo Decorti
Siamo stati indifferenti
Vivo ad Udine ho 51 anni e sono coniugato. Ho anche un figlio (quindi sono padre) ed ero molto orgoglioso della mia terra fino a prima di leggere l’articolo apparso sul vostro quotidiano.
Il contenuto della lettera scritta dal ragazzo che ha deciso di farla finita non è solo struggente ma rappresenta a tutti gli effetti con estrema chiarezza e lucidità quello che la mia generazione non è riuscita a costruire. Il documento redatto dal ragazzo è una palese accusa a questa società che non ha ancora ben compreso qual è la vera ricchezza nel mondo ovvero la vita! Siamo stati capaci tutti noi (ed io mi sento parte in causa) di indifferenza di fronte a certe situazioni che potevano essere evitate.
Claudio Balbusso
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto