L'accusa di un paziente: «Diagnosi Covid tardiva, sono finito in terapia intensiva per un mese»

Quasi un mese di ricovero in ospedale, sei giorni di terapia intensiva, salvato dagli "angeli" dell'ospedale Civile. E nemmeno un cenno di interesse dal proprio medico di base. «Manca completamente il primo filtro tra degenza domiciliare e ricovero ospedaliero» è il duro atto d'accusa di Cristiano Capponi, 54 anni, consulente finanziario per Bnl-BNP Paribas, marito, padre, e vicepresidente vicario del gruppo Bevanda Malamocco.Capponi è sopravvissuto alla polmonite bilaterale provocata dal Covid e il suo è il punto di vista di chi ha vissuto un calvario in prima persona, concluso martedì scorso.
La sua storia inizia il 4 dicembre, quando viene contagiato durante un appuntamento di lavoro. Trascorre una settimana di terapia a casa. «Prescritta dal mio medico curante» aggiunge Capponi, «il quale ha sempre rifiutato una visita domiciliare, demandando questo impegno all'Usca», le unità sanitarie cioè che hanno il compito di sorvegliare i malati di Covid in isolamento domiciliare. Unità che si trovano subissate di lavoro.Il giorno dopo il ricovero in ospedale, siamo al 18 di dicembre, Capponi viene trasferito nel reparto di terapia intensiva con una diagnosi di polmonite bilaterale.
È qui che ha inizio il calvario. «La mia forza di sopravvivenza», spiega il consulente finanziario, «mi ha fatto indossare per 4 giorni, per 24 ore, il C-PAP, il casco al cui interno viene erogato ossigeno all'80% grazie ad un compressore. La professionalità di tutti gli operatori sanitari sta alla base della vittoria contro la malattia. Senza queste professionalità, la vita in ospedale sarebbe sicuramente altro». Ma con un filtro preventivo da parte del medico curante, racconta Capponi, in ospedale magari non sarebbe nemmeno arrivato. «Il mio non è un atto d'accusa generalizzato, ci mancherebbe. Ma avendo vissuto direttamente l'esperienza ospedaliera» aggiunge «in queste ultime settimane, ho sentito sia i commenti di medici e paramedici, sia le storie dei compagni di stanza».
Sempre lo stesso disco. «Mi sembra di ascoltare lo stesso disco», aggiunge, «si parla di liberare posti in TI, essenziali per la sopravvivenza di tutti gli ammalati non solo di Covid, e facciamo intervenire i 118 in situazioni compromesse, con polmoniti non diagnosticate in tempo, come nel mio caso, e le Usca non sono sufficienti. La presenza dei medici di base dovrebbe essere primaria anche perché conoscono i loro pazienti. Alla fine, non vorrei che la nostra sopravvivenza venga affidata all'intraprendenza di un parente che, di fronte al peggioramento della situazione, si ritrovi a richiedere l'intervento del 118 per salvarti la vita. Ovvio che la situazione sia dovuta ai troppi contagi, alla mancanza di Usca, ai comportamenti demenziali di "no virus, no mask, no vax", per cui i medici di base sono sotto pressione. Ma, in alcuni casi, sarebbe importante, anche sotto il profilo psicologico, prestare maggiore attenzione».
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