Lago di Redona, i fantasmi di sassi: rivive la storia del borgo di Movada - Foto e Video

In tempo di siccità spuntano dall’acqua gli scheletri delle case inghiottite dal Meduna negli anni ’50. La Sade costruì la diga che trasformò la vita della Val Tramontina: i residenti costretti ad andarsene

In tempo di grande secca rispuntano dal lago di Redona i pochi ruderi rimasti del vecchio borgo di Movada. E' uno spettacolo straordinario, che capita nelle estati più torride e senza pioggia. Sono gli scheletri delle poche case di sassi inghiottite dal torrente Meduna, nei primi anni '50, quando fu ultimata la diga costruita sulla strettoia di Ponte Racli. Da quel momento cambiò radicalmente la vita della Val Tramontina.

L'acqua, respinta indietro dallo sbarramento in calcestruzzo, sommerse rapidamente tutto ciò che era rimasto nell'ampio pianoro circondato dalle montagne: gli edifici di architettura rurale con i ballatoi in legno, le stradine delimitate dai muretti a secco, le stalle ordinate, gli orti ben coltivati. Si portò via il "piccolo mondo" che da decenni raccoglieva la ricchezza umana di storie vissute.

Fu strappata l'anima a tre tranquille comunità locali, che vantavano un'orgogliosa identità: Movada, Flour e Redona vecchia, successivamente ricostruita più in alto (dov’è oggi). Il ricordo fu lasciato soltanto ai puntini fissati sulle poche cartine geografiche in circolazione, ma giusto il tempo per la loro riedizione aggiornata, poi tutto sparì nel nulla. La memoria rimase nel cuore dei pochi abitanti: alle nuove generazioni resteranno frammenti sempre più sbiaditi. Una fiammella di candela che si sta spegnendo.

Il progresso e il profitto fecero a fette tutto quanto si metteva di traverso alla loro arrembante corsa. Era il momento d'oro dei laghi artificiali da sfruttare soprattutto per la produzione di energia. Si trattava di opere imponenti che facevano girare montagne di denaro. L'industrializzazione dettava le regole. E le imprese erano energivore: consumavano chilowatt a manetta.

Così le valli più impervie, solcate da torrenti tormentati e di ottima portata, costituivano ghiotte opportunità economiche. L'intero bacino del Meduna era da tempo sotto osservazione, perché garantiva al meglio i parametri richiesti. Non a caso, nel giro di pochi anni, furono realizzati tre importanti invasi: prima quello di Redona, il più basso (poco più di 300 metri sul livello del mare); poi quello di Ca' Selva (a 500 metri), che poteva sfruttare la strada di Chievolis; infine quello più alto del Ciul (a quasi 600 metri), il più difficoltoso da raggiungere attraverso due strette gallerie di servizio, che gocciolano acqua ogni giorno.

La borgata abbandonata riemerge sul lago di Redona

Tutti e tre costituiscono ancora un sistema strategico di forti potenzialità che, oltre alla produzione di energia, alimenta le irrigazioni dei campi in tempi di emergenza e trattiene l'acqua nei periodi delle piene. Come avrebbero potuto opporsi alla costruzione di quelle dighe pochi cittadini "comuni", peraltro senza alcun potere contrattuale se non quello di difendere a denti stretti un pugno di misere abitazioni? D'altra parte, il fenomeno dell'emigrazione già la faceva da padrone: non si poteva più vivere attorno all'orto. La grande fuga spopolava le montagne.

Si sa che, alla fine del giro di giostra, gli interessi economici sbranano i piccoli valori di tipo prevalentemente affettivo. Non contano nulla le micro-identità di paese nel mondo degli affari, si raschiano via e basta. Così, anche in Val Tramontina, furono avviati gli espropri per pubblica utilità. Di fronte al potere d’imperio delle carte bollate, non restava che issare bandiera bianca e andarsene.

Ai residenti fu garantito un magro indennizzo: in pratica, la liquidazione, a prezzi peraltro stracciati, dei loro beni materiali "nudi e crudi". Sull'operazione del lago di Redona ci mise le mani la Sade, la potentissima azienda elettrica che diventò tristemente famosa per il disastro del Vajont, una decina di anni più tardi. In fretta e furia, furono portate a termine le trattative (si fa per dire): quattro soldi e via.

Alcuni proprietari approfittarono dello sfollamento coatto per andare a vivere in città, o magari all'estero. Altri riuscirono a recuperare i pochi materiali utili per costruire altrove. Si portarono appresso i coppi, le travi dei tetti, gli infissi di legno, le finestre e le porte. Poca roba che poteva essere riciclata. Le case furono spogliate di tutto: rimasero scheletri pronti per la sepoltura. L'acqua fece rapidamente il lavoro dei becchini. E la storia di tre borgate fu spazzata via.

In realtà, i fantasmi di pietra a volte ritornano. Fanno cucù tra le acque del lago nei periodi di secca. Quest'anno l'occasione è propizia per rivedere le rovine delle case di Movada: sono le uniche testimonianze ancora rimaste. Basta salire a Pecol (frazioncina di Tramonti di Sotto), lasciare l’auto e scendere lungo un piccolo sentiero.

Lo scenario è unico. Nonostante i tanti anni trascorsi (e la forza delle correnti del Meduna) sembra quasi che l'acqua non voglia cancellare la storia della minuscola comunità. Sembra che “qualcuno” voglia invece proteggere la memoria di quel borgo compatto, abitato da una decina di famiglie.

Lì c'erano le abitazioni dei Miniutti, i cui ricordi sono tenuti particolarmente vivi dalla vena narrativa di Giacomo Miniutti, che sulle tracce del nonno ha scritto pagine importanti dedicate al "piccolo mondo" che girava, come le lancette dell'orologio, attorno a esistenze molto semplici, «in gran parte grame e patite, ma sempre vissute nell'accettazione del destino e sperando nella Provvidenza».

Il suo libro "Guardaci dal peggio" (Edizioni Biblioteca dell'Immagine) raccoglie i frammenti del microcosmo di Movada prima di finire inghiottito dal lago di Redona. A un certo punto il lettore si imbatte nel carattere umile, ma forte, di don Basilio Miniutti, classe 1898, originario di quel luogo.

E, tra storia e leggenda, l’autore del libro mette a carico di quel prete la pietà di prendersi cura del suo borgo natio: «A tutt’oggi quei muri di pietra sono ancora in piedi, a monito che l’uomo non è il padrone del creato, ma è soltanto una sorta di giardiniere, messo sulla terra per lavorarla, curarla e mantenerla la più intatta possibile».

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