L’epidemiologa che studia i flussi del coronavirus: “L’Africa è a rischio se non ferma i voli”

Vittoria Colizza: «Analizzo il rapporto tra viaggi aerei e contagi. Egitto e Algeria i più esposti»
Una addetta disinfetta la cabina di un volo Ethiopian Airlines
Una addetta disinfetta la cabina di un volo Ethiopian Airlines

PARIGI. Finora tutte le valutazioni dei rischi della diffusione del coronavirus a livello internazionale si sono basate sul fatto che la Cina fosse l’unico epicentro. Ma se l’epidemia si trasferisse altrove? In Africa, ad esempio, molto più vicina all’Europa e in certi Paesi davvero poco preparati a fronteggiarla. Non stiamo parlando di fantascienza, perché la Cina è il primo partner commerciale di quel continente. A monitorare la situazione è a Parigi un gruppo di ricercatori dell’Inserm, l’Istituto francese di sanità e ricerca medica. Ma sono quasi tutti italiani, guidati da Vittoria Colizza, romana, 41 anni, fisica di formazione, specialista di epidemiologia (con un passato anche all’Isi di Torino). Lei da cinque settimane dorme quattro ore a notte, per elaborare con i suoi collaboratori modelli matematici sulla diffusione del nuovo virus.

Avete pubblicato uno studio su The Lancet che riguarda proprio l’Africa. Qual è la situazione?
«Ci sono tre Paesi più esposti degli altri: Egitto, Algeria e Sudafrica. E l’unico caso di coronavirus riscontrato finora nel continente, dopo la pubblicazione dello studio, è stato proprio in Egitto».

Come avete individuato quei tre Paesi?
«Ci siamo basati soprattutto sui flussi aerei da ogni provincia cinese verso i singoli Stati africani, esclusa Hubei, quella di Wuhan, dalla quale i voli sono bloccati. Va detto che, fortunatamente, proprio i tre Stati sono, nel contesto del continente, tra quelli che meglio possono arginare il contagio».

Questo come lo valutate?
«Consideriamo due indicatori: la capacità funzionale a livello sanitario, che valutiamo in particolare con i dati forniti dall’Oms. E poi una vulnerabilità, che non è collegata direttamente alla sanità, ma a fattori più generali, come la stabilità economica e politica o la demografia».

Quale la situazione altrove in Africa?
«A parte i tre Paesi citati, ce ne sono altri sette, che sono meno esposti, ma dove, appunto, la capacità funzionale e la vulnerabilità sono molto più carenti. Si tratta di Nigeria, Etiopia, Sudan, Angola, Tanzania, Ghana e Kenya.

A chi servono i dati che voi fornite?
«Alle organizzazioni internazionali e ai singoli Paesi per attivare le politiche più idonee. Quando abbiamo pubblicato lo studio, lo scorso 9 febbraio, in tutta l’Africa c’erano appena due laboratori diagnostici capaci di fare il test del coronavirus. Ora siamo già a 40».

Voi avete fotografato una situazione, che poi è in divenire. Come può cambiare?
«Nello studio indichiamo, ad esempio, che il Guangdong ha relazioni intense con una serie di Paesi: Camerun, Repubblica democratica del Congo, Madagascar, Mozambico, Rwanda, Senegal e Tunisia. Se l’incidenza del virus aumenta nel Guangdong, questi Stati rischieranno di più».

Quale relazione tra i voli aerei con la Cina e la possibilità di contagio in Africa?
«È forte, ovviamente. La metà è assicurata da Ethiopian Airlines, che non ha cessato i voli. Però va detto che se si fermano al 100% si blocca davvero la possibilità d’importare il virus. Se, invece, si riducono, anche del 90%, la possibilità di un contagio è solo ritardata».

Perché siete quasi tutti italiani nel laboratorio che lei dirige?
«Perché abbiamo bisogno di specialisti di fisica, matematica e informatica. E in questi settori gli italiani sono bravissimi».

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