L'ex vicesindaco di Forgaria:«Il balon a mi à salvade la vite»

Frucco era in servizio alla Goi di Gemona, nella sua camerata morirono tre persone. «Ero a Tarcento per un allenamento altrimenti sarei stato in caserma»

GEMONA. «Il balon a mi à salvade la vite. (Il calcio mi ha salvato la vita). Mi sento un superstite». Per Enrico Frucco, già vicesindaco del comune di Forgaria del Friuli, non è un gioco di parole.

Nel 1976 Frucco aveva 20 anni e stava svolgendo il servizio militare alla Goi Pantanali di Gemona. «La 500 serviva a mia mamma che era postina – ricorda – per cui, anche se avevo libera uscita, me ne stavo in caserma». Non quella sera, non la sera del 6 maggio del 1976.

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«Avevo allenamento – ricorda Frucco – ero nel campo sportivo di Tarcento. Se non mi fossi trovato laggiù sarei stato in caserma. Nella mia camerata eravamo in 10 e 3 sono morti. Loro che quella sera mi avevano anche rifatto la branda – ricorda evocando quello che una volta era lo spirito di solidarietà tra commilitoni – come facevo io quando erano loro a dover rientrare tardi».

La tremenda scossa aveva fatto crollare gli spogliatoi dove Frucco si stava allenando. Fuori la 500 era intatta.

«Ho preso la macchina della mamma – racconta – deciso a raggiungere la caserma. Per strada c’era la nebbia. Arrivato in località Morena c’era in strada il treno deragliato. Allora ho dovuto cambiare strada e prendere per Colle Rumiz. La nebbia non si dissolveva, ma sono riuscito ad arrivare in caserma».

«Lì un disastro totale: quello che non riuscirò più a scordare sono il pianto e i lamenti di chi era sotto, per i quali si poteva fare poco o nulla. Non c’era luce, non sapevamo cosa fare, scavavamo con le mani, le ruspe non si potevano toccare, avremmo potuto schiacciare chi era là sotto».

Oltre al dolore per la sorte dei compagni, c’era un’altra preoccupazione per Frucco e i suoi commilitoni impegnati a scavare. «Nella rimessa dei mezzi c’era il deposito dei carburanti: avevamo paura di qualche esplosione. Dalle macerie hanno estratto Floriano, il primo cui dovettero poi amputare le gambe. All’epoca ero caporal maggiore e facevo scuola guida a quelli che arrivavano».

«Per tutto il giorno avevo pensato agli scherzi da fare, così come si usava fare quella volta, a quelli che dovevano arrivare il giorno dopo. Ho preso la campagnola e l’ho caricata di coperte e disinfettanti. Ho fatto salire un commilitone che fino a quella sera non avevo mai conosciuto e siamo andati in piazza del Ferro. Anche lì urla, lamenti, pianti e morti. Abbiamo aiutato fino a mezzanotte».

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Dopodiché Frucco decise di andare a vedere cosa era successo ai suoi: «A quell’ora mi sono deciso ad andare verso casa a Cornino, per vedere come stessero i miei genitori. Sempre a bordo della campagnola ci siamo diretti verso Osoppo dove abbiamo forzato un blocco stradale dei carabinieri».

«Arrivati su a Cornino la mia casa non c’era più ma i miei si erano miracolosamente salvati: mio papà e mia sorella erano scappati in tempo, mia mamma l’hanno estratta un’ora dopo. Non ce l’hanno fatta i miei nonni: sono morti per asfissia nel loro letto, sotto le macerie. Morta anche mia zia e tanti amici a Cornino. Alle 2 sono tornato in caserma e abbiamo aspettato l’alba. Al mattino il capitano Tomadoni ci ha ordinato di andare a casa».

Il reparto di Frucco pagò il suo tributo in sangue al terremoto. «Facevo parte del 3°artigliere da montagna, gruppo Udine, reparto Bcs. Ero autista del comandante. Della mia camerata sono morti Federico Luison e Arnaldo Basset di Treviso e Mario Callegari di Conegliano, studente di enologia».

 

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