L'imprenditore Petrucco: «Giusto proseguire il blocco, la ripartenza deve avvenire per regioni»

L’amministratore delegato di Icop e vicepresidente dei costruttori europei guarda al futuro predicando prudenza. «Così non possiamo andare avanti a lungo, ma una nuova esplosione dei contagi potrebbe costarci molto di più»

UDINE. Prudenza e attenzione perché una «falsa partenza», correlata a una nuova esplosione dei casi di positività potrebbe costare davvero caro al mondo produttivo locale e nazionale. Giusto, quindi, proseguire il lockdown – o parte di esso visto che una fetta significativa di aziende ha già ripreso a lavorare – ma quando si potrà ricominciare a produrre a pieno regime,

il Governo dovrà valutare riaperture basate per singolo caso, di regione in regione, senza aspettare – ad esempio – che anche la Lombardia sia pronta a gettarsi alle spalle la serrata. Parola di Piero Petrucco, vicepresidente e amministratore delegato della Icop di Basiliano e numero due di Ance nazionale oltre che dei costruttori europei.

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Petrucco quanto può reggere ancora il sistema imprenditoriale italiano?

«Credo che l’Italia non possa sopportare a lungo lo stop industriale, ma capisco che quella del Governo sia stata una decisione difficile da prendere. Personalmente, poi, a me preoccupa molto di più una possibile falsa partenza, con una nuova esplosione dei contagi, che rischia di costarci ancora di più».

Qual è la situazione nel resto d’Europa?

«Ho avviato un monitoraggio generale, anche in virtù del mio ruolo in Europa, e devo dire che è abbastanza chiara. Francia, Germania e Danimarca, ad esempio, sono ormai orientate a riaprire tra il 20 e il 27 aprile. In Francia si ripartirà completamente, dal punto di vista industriale, dal 27. Lo stesso discorso, quindi, vale, giorno più giorno meno, per la Danimarca, dove non hanno mai arrestato completamente la produzione, e pure la Germania che da metà marzo ha sì rallentato i ritmi di lavoro, senza però fermarsi. E pure la Spagna, in condizioni peggiori delle nostre, sta pensando di ripartire nello stesso periodo».

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Quindi va bene così anche in Italia?

«È molto difficile avere certezze granitiche in questo momento. Non me la sento di censurare il Governo né di spingere in un’altra direzione. Questa crisi ci ha insegnato che servono competenza e comprensione delle complessità e vedo che, per fortuna, le ricette semplici sono scomparse dal nostro orizzonte statale. Nell’immediato credo si debba attendere che la curva dei contagi imbocchi decisamente una piega verso il basso per cui penso sia ragionevole prendersi ancora una quindicina di giorni di stop. Il vero problema sarà il “come” ripartire».

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Può spiegarsi meglio?

«Il primo grande tema irrisolto è quello della mobilità lavorativa. Come vicepresidente della Federazione europea dell’industria delle costruzioni sono stato invitato a un incontro, telematico, con Thierry Breton (Commissario Ue per il Mercato interno e i servizi ndr) assieme a rappresentanti di altri Stati e altre realtà. Tutti abbiamo sottolineato la necessità di dichiarare, a livello comunitario, lo stop per forza maggiore. A differenza di Francia e Germania, infatti, il Governo italiano non ha mai scelto questa opzione aprendo problematiche rilevanti, per le aziende, in relazione al rispetto dei contratti in essere».



Qualcos’altro?

«Non bisogna dimenticare il problema della mobilità delle merci e delle persone. Mentre nel primo caso, in un modo o nell’altro, si ricomincerà, nel secondo vedo la situazione molto più complicata perché ogni Paese si muove con regole diverse senza, al momento, un raccordo europeo. Breton ha detto che ci stanno lavorando. Vedremo quello che accadrà. In Italia, poi, va affrontato il nodo delle mascherine per i lavoratori. Adesso se ne trovano in vendita, ma quelle marchiate “Ce” sono pochissime e in questo modo si espone il mondo imprenditoriale a rischi enormi».

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Palmanova 22 febbraio 2020 Vertice corona virus centro operativo protezione civile © Foto Petrussi


Condivide l’appello lanciato da Anna Mareschi Danieli per aperture in base ai singoli casi regionali?

«Sì, oggettivamente le situazioni non sono uguali dappertutto. Noi, ad esempio, abbiamo continuato a lavorare, pur con tutte le precauzioni del caso, in un metanodotto in Puglia e i dati di quella regione non sono nemmeno lontanamente paragonabili a quelli di Lombardia o Veneto. È altrettanto vero, inoltre, che ci sono alcune attività, come possono essere i piccoli cantieri, in cui servono poche persone al lavoro e che, secondo me, ragionevolmente ormai potrebbero ripartire».

A proposito del Governo, cosa ne pensa dei due decreti approvati fino a questo momento?

«Il “Cura Italia” è un testo puramente emergenziale, ma che presenta, purtroppo, alcune lacune evidenti. Penso, ad esempio, alla mancata dichiarazione di forza maggiore, come detto, ma anche all’assenza di sospensione dello split payment. Mi sembra francamente assurdo che, in una situazione in cui si sostiene la necessità di garantire denaro fresco alle imprese, lo Stato non interrompa in anticipo qualcosa come lo split payment che priva le imprese di liquidità e non lanci un piano straordinario di pagamento degli arretrati dovuti. Stiamo parlando di almeno 6 miliardi, già inseriti a bilancio dallo Stato e che dunque non comporterebbero alcun impatto sui conti del Paese».

Il secondo decreto, invece, come lo valuta?

«Mi pare allineato a quanto messo in campo in Francia, anche se forse sei anni di tempo per rientrare dai prestiti mi paiono un tempo troppo breve in relazione alla crisi che dovremo affrontare. In ogni caso ci stiamo convincendo che avere liquidità a debito risolva tutti i problemi, ma la “fase 2” deve portare alla patrimonializzazione e alla tenuta del conto economico. Se è ridicolo pensare a contributi a pioggia per tutti, avremo però bisogno di strumenti per salvaguardare la capitalizzazione senza la quale non c’è capacità di investimento».

Vede qualcosa di positivo in questa emergenza?

«Ne usciremo molto diversi, non più buoni. Il salto di qualità che ci ha fatto compiere la crisi, sul terreno della digitalizzazione e dello sconvolgimento dei modelli organizzativi, rappresenta una strada senza ritorno sia dal punto di vista imprenditoriale sia associativo». —


 

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