Lo zio di Teresa vittima di lupara bianca

Scappava da Favara (Agrigento) per fuggire alla violenza e alla scia di sangue che, in qualche modo, aveva toccato anche la sua famiglia.
Teresa Costanza, la trentenne originaria di Favara uccisa a colpi di pistola la sera di martedì insieme al suo fidanzato nel parcheggio del palasport di Pordenone, si era trasferita a San Donato Milanese insieme con la sua famiglia nel 2006.
Figlia di Rosario, imprenditore edile, Teresa aveva fatto i bagagli con tutta la sua famiglia per lasciare la triste realtà della sua città d'origine. Lo zio della giovane, Antonio Costanza, è stato vittima di "lupara bianca" nel 1995. La sua morte venne decisa dal tribunale di Cosa nostra dopo la cattura del boss di Santa Elisabetta (in provincia di Agrigento) Salvatore Fragapane: Costanza, infatti, venne erroneamente indicato come la spia che svelò agli investigatori il nascondiglio del boss.
A raccontarlo ai magistrati sono stati i collaboratori di giustizia Maurizio e Beniamino Di Gati e Luigi Putrone, che spiegarono come il Costanza venne ucciso e poi sepolto con la sua auto in un terreno di Campofranco (in provincia di Caltanissetta).
Fu poi Giovanni Brusca a spiegare come i boss di quel tempo caddero in errore: non fu Antonio Costanza ad indicare il covo dove si nascondeva Fragapane. Ambienti di mafia e di sangue che Rosario Costanza, padre della vittima uccisa martedì sera a Pordenone, non aveva mai frequentato. Proprio per questo decise di portar via la sua famiglia da Agrigento. Quindi il trasferimento a San Donato Milanese e l'inizio di una nuova vita.
Teresa, che si laureò alla "Bocconi" e poi iniziò a lavorare in un'agenzia di assicurazioni, aveva nel frattempo conosciuto Trifone Ragone, un sottufficiale dell'esercito di 29 anni, che convinse la giovane a trasferirsi a Pordenone per convivere.
L'inizio della storia e la tragica fine con un terribile epilogo di sangue nella serata di martedì scorso: tre colpi alla testa di Trifone e due all'indirizzo della fidanzata, esplosi da un killer ancora ignoto mentre i due si trovavano in auto nel parcheggio del palasport di Pordenone.
Gli inquirenti indagano a trecentosessanta gradi, senza escludere alcuna pista. Neanche quella di un possibile spasimante invaghito della trentenne o di vicende legate al mondo dei buttafuori: secondo quanto emerso dai primi accertamenti, Trifone Ragone avrebbe lavorato più volte come buttafuori in diversi locali della zona.
E a proposito di criminalità organizzata, già nella serata di mercoledì scorso la nonna materna del militare ucciso con la fidanzata all’ombra del palazzetto dello sport, ha gettato un’ombra inquietante sul movente che avrebbe scatenato il duplice omicidio.
Intervistata nel corso della trasmissione “Chi l’ha visto?”, su RaiTre, non ha esitato a sospettare che si potesse trattare di un «delitto di stampo mafioso».
La donna ha parlato con le foto del nipote in mano: «E’ la classica esecuzione mafiosa. Lui si è ribellato a qualcosa ancora quando era qui, alla Sacra Corona Unita. I colpi alla testa sono la classica esecuzione mafiosa».
La donna ha parlato di un «grande dolore: non le dico mia figlia, sta malissimo, quella si suicida. No, nessun omicidio-suicidio: si amavano troppo, erano bellissimi, Trifone aveva portato Teresa qui tante volte: le dicevo che era bella, che sembrava una svedese».
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