Manuela Di Centa, tra sogni e famiglia: «I miei ricordi trent’anni dopo le Olimpiadi Lillehammer»
Trent’anni fa l’ultima delle 5 medaglie di Manuela Di Centa. «L’emozione più grande? Quando vidi papà allo stadio»

«Manuela dov’era la mattina di 30 anni fa?»
«Sulla pista di fondo di Lillehammer a dire al mio skiman Tito Romani, prima della partenza della 30 km a tecnica classica, che ero stanca, perché ero alla quinta gara in dieci giorni e che non ce l’avrei fatta a conquistare un’altra medaglia alle Olimpiadi».
Manuela è Manuela Di Centa, 61 anni di Paluzza, l’onorevole Di Centa, perchè quando uno lo è stato il titolo gli rimane, trent’anni fa alle Olimpiadi di Lillehammer entrata nella leggenda dello sport mondiale con 5 medaglie nel fondo in altrettante gare: un bronzo con la staffetta, dove c’era anche una giovane Gabriella Paruzzi, due argenti nella 5 km a tecnica classica e nella 10 km a inseguimento, e due ori.
Il primo, il 13 febbraio nella gara inaugurale, la 15 km a tecnica libera, il secondo esattamente trent’anni fa, in quella 30 km che Manu nemmeno voleva correre.
Invece?
«Semplice, Tito che mi aspettava alla fine di quella rampetta mentre testavo i materiali per la gara, mi disse semplicemente: “Manu, con tutto il lavoro che abbiamo fatto mica ora ci puoi dire che sei stanca: vai e fai la tua gara”. E quella frase mi spronò a mettere sulla pista tutte le ultime energie che avevo. Pensai: è vero che io sono stanca, ma lo saranno anche le mie avversarie».
E andò forte...
«Fu durissima. La gara era a tecnica classica, era a cronometro, quindi si doveva andare a tutta e poi fare i conti con il tempo delle altre. Sul percorso c’erano migliaia di persone, molti tifavano per me perchè i norvegesi stravedevano per me. I tecnici piazzati sul percorso mi davano i distacchi sulle altre, sapevo che ero in vantaggio, ma finchè non mi sono fiondata sul traguardo ho pensato solo ad andare forte, anche se col passare dei chilometri, mi sentivo sempre più in riserva».
L’arrivo se lo ricorda?
«Come no. Passai il traguardo e mi gettai a terra stremata. Ora lo fanno tutte nel fondo e nel biathlon, allora non era una cosa molto comune buttarsi a terra dopo l’arrivo».
Poi?
«Il vantaggio era talmente risicato che capii di aver vinto solo all’arrivo dell’ultima concorrente. Vinsi per poco più di un decimo sulla norvegese Mikkelsplass e la finlandese Kirvesniemi. Capii di aver vinto e dissi: o signor, cumo mi astu daat ancje mase. Se andate a cercare su YouTube i vecchi filmati si vede chiaramente ».
Lei ha vinto 5 medaglie, è diventata l’icona azzurra di quei Giochi assieme alla staffetta maschile del fondo: riesce a isolare il più bel momento di quelle Olimpiadi?
«Sì, quando una mattina, nello stadio del fondo, mentre stavamo provando gli sci prima dell’esordio, incrociai lo sguardo di papà Gaetano, che era venuto fin lassù con mio fratello Andrea per sostenermi. Ho pensato a lui, padre di famiglia, panettiere a Paluzza, maestro di sci, allenatore con l’Aldo Moro capace di aviare al fondo centinaia di ragazzi, che si ritrovava nel tempio dello sci. L’ho visto commuoversi e mi sono commossa. Anche perchè dietro quel suo viaggio c’è un segreto».
Quale?
«Qualche mese prima dei Giochi gli mandai una lettera. “Alla cortese attenzione del signor Gaetano Di Centa, le comunico che Lei è formalmente invitato alle Olimpiadi di Lillehammer”...e via andare. Gli scrissi proprio così, con tanto di biglietti aerei, hotel prenotati e pure i pass per accedere alla pista. Capisce bene che, con una premessa del genere, da carnica quale sono, alle Olimpiadi non avrei potuto andare piano, anche perché durante le gare li sentivo sul percorso i suoi incitamenti e quelli di mio fratello Andrea».
E cosa le dice trent’anni dopo suo padre?
«Le svelo una cosa. Domenica ci siamo trovati in famiglia per ricordare un po’ proprio quell’avventura olimpica. Io, Andrea, Giorgio, che all’epoca era a casa a sognare di vincere anche lui le Olimpiadi, mamma e papà, 96 anni entrambi. E papà, a un certo punto, mentre bevevamo un bicchiere di buon vino, sentendoci parlare del passato, delle nostre vittorie ci ha semplicemente detto: lait in denant».
Che dirlo a quattro ori olimpici è un bell’andare...
«Esatto. Andate avanti figli miei, guardate al futuro, che il passato è passato».
Manuela, ma si era resa conto di avere riscritto la storia dello sci?
«No. Ma ero uno dei pochi atleti all’epoca ad avere il telefono cellulare. Avevo un mega telefono, di quelli con antenna estraibile in gomma. Un 335 e poi 5-6 numeri della Telecom. Chiamavo io, pochissimi avevano il mio numero. Telefonavo a Paluzza e mamma Maria Luisa mi diceva che tutti erano impazziti per le mie medaglie in Italia».
Lillehammer le ha cambiato la vita?
«Sì. E non solo per le vittorie. Ero sulla bocca di tutti, fui persino invitata a Sanremo da Pippo Baudo».
Come Sinner?
«Meglio di Sinner, perché io a Sanremo ci andai. Quelle Olimpiadi mi diedero la possibilità di essere conosciuta, non solo come atleta ma come donna, e di poter dimostrare che le donne di sport potevano avere successi anche fuori dallo sport».
Infatti lei, 30 anni fa, aprì una strada: si truccava prima delle gare, faceva attenzione al look, fece televisione. Ora non è così raro.
«Volevo semplicemente essere me stessa nell’essere donna. Non era nei canoni di allora, ma ero me stessa, mi piaceva mettere gli orecchini, le gonne. Mi piaceva comunicare».
Con i social adesso una come lei avrebbe accumulato follower a palate...
«(sorride ndr) Sì, in effetti ci ho pensato. Diciamo che ho aperto una strada. Anche se avevo il cellulare a “cassetta”».
A Lillehammer l’Italia vinse 20 medaglie con sette ori: mai così tante.
«Fu una spedizione memorabile. Tomba, che era la nostra carica, il nostro faro e Compagnoni trascinavano. La 4x10 del fondo fece un’impresa epica, anche se per me l’impresa vera la facemmo noi ragazze nella staffetta femminile con un bronzo contro pronostico che valeva oro. Io, Belmondo, Bice Vanzetta e Gabriella abbiamo dimostrato cosa vuole dire essere una squadra vera. Perchè il bilanciamento delle forze in campo nella staffetta è fondamentale e noi facemmo un capolavoro. E poi quella fu la prima vera Olimpiade in cui la Federsci, guidata dal generale Valentino, mise davvero gli atleti al centro del progetto e i risultati si videro».
A proposito di risultati: cosa ci dice dello show di Lisa Vittozzi nel biathlon?
«Sono strafelice per lei. Ora si goda tutto questo. Io le sono stata vicino nei momenti difficili, perchè i vecchi campioni devono fare questo con i giovani. Ora lei va con le sue gambe e andrà ancora più lontano».
A proposito, per il suo fondo teme la concorrenza del biathlon?
«No. Ma gli sport vivono di personaggi. Belmondo-Di Centa, Wierer-Vittozzi. Ecco il “mio” fondo li deve ritrovare. È cambiato il format delle gare? L’atleta si deve adeguare, ai miei tempi era così».
Fra due anni ci sono le Olimpiadi in casa. Le sarebbe piaciuto gareggiare immagino...
«Certo. A Torino 2006 ho avuto l’onore di premiare mio fratello Giorgio con la medaglia d’oro allo stadio olimpico, tra due anni sarò in val di Fiemme a tifare Italia. Perchè io quelle piste le conosco a memoria e per me significano tanto: senza la prima medaglia ai Mondiali nel 1991 non ci sarebbe stata Lillehammer».
Ce la faremo a presentare l’Italia migliore a Milano-Cortina?
«Speriamo, con la pista da bob siamo sull’orlo della figuraccia. Credo che un impianto del genere a Cortina, una delle culle mondiali dello sci e del ghiaccio, sia fondamentale anche per il futuro di quelle discipline, come ha detto pure il mio amico Zoeggeler, il mito dello slittino. Vedrete che presenteremo il volto migliore del Paese. Di rincorsa, come sempre, ma ce la faremo».
Manuela, il prossimo anniversario?
«Arriva presto, in marzo. In quel fantastico 1994 vinsi anche la Coppa del mondo di sci nordico. Prima azzurra nella storia».
E una bottiglia di vino, nella famiglia più medagliata d’Italia, bisognerà aprirla di nuovo. Con naturalmente papà Gaetano che dirà a tutti Lait in denant. Sennò che Di Centa è?
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