Maurizio Lucchetta, l’inguaribile bohémien che amava Pordenone

PORDENONE. Lo si incontrava, fino alle ore piccole, nel cantuccio di uno dei locali del suo giro, preferibilmente la Perla, il Woody, l’Ottoboni, il Noncello fino a quando rimase sotto la gestione dell'affabile chef Paolo Appolonia. Scriveva, a capo chino, usando la penna stilografica. Riempiva fogli su fogli componendo testi e racconti di ogni genere per giornali, riviste, libri.
Se non incrociava persone conosciute, intratteneva gli avventori occasionali ai quali spettava il ruolo di cavia: «Senti qua...». Leggeva e commentava il suo lavoro. Da troppo tempo manca un’atmosfera magica: dieci anni senza Maurizio Lucchetta. E’ il caso di dire che una piccola parte di storia pordenonese è stata consegnata agli archivi, almeno quella del linguaggio vernacolare, parlato e scritto con il cuore; quella delle provocazioni taglienti per scuotere la città.
Il ritorno “de la Vecia”. Lucchetta aveva l'umorismo nel sangue e nel cervello. Lo usava per le filastrocche del Pan e Vin, in occasione dei fuochi epifanici, e per i testi del Processo della Vecia, diventato l'appuntamento di metà Quaresima.
Fu l'amicizia con Ettore Busetto, l'altro indimenticabile “cantore della pordenonesità”, a rispolverare quest'ultima tradizione. Si rivelò decisiva un'avventurosa vacanza che i due fecero a Istanbul, a bordo di una scassatissima Fiat 850 e con alloggio in tenda.
La Vecia resuscitò e Lucchetta scrisse ininterrottamente il Processo per trentatré anni. Si seppe che l’autore non impiegava più di un paio di giorni per la stesura dei testi, perché era meticoloso nella raccolta delle notizie durante l’anno. Scriveva di getto, soprattutto di notte (riteneva improduttivo il tempo del dormire, perché rubato alla progettualità). Riuscì a coinvolgere nell’operazione la vignettista Marina Pitter per impreziosire i libretti. Il suo motto era “rima el prossimo tuo come te stesso”.
Per tutti era semplicemente “Maurizio”: un lampo, una battuta fulminante, il fustigatore di una politica autoreferenziale. Irriverente. E quando colpiva il bersaglio, se la rideva di gusto con il suo sguardo luciferino. Che fare? I più ambivano ad avere una “comparsata”.
Se qualcuno invece non capiva di stare al gioco, allora Lucchetta si trincerava dietro la corazza protettiva dell'elogio dell'umorismo, pescato nel saggio “Allegro, ma non troppo” (Carlo Cipolla). Prendeva la frase che più gli interessava e la spiattellava ai quattro venti: «Quando l'umorismo viene usato nella misura giusta, e nel momento giusto, è il solvente per eccellenza per sgonfiare le tensioni, risolvere situazioni altrimenti penose, facilitare relazioni umane».
Se neanche in questo caso il carattere più permaloso si allentava, allora scuoteva il capo bofonchiando: «Quel lì, se non lo citavo mi, nissùn lo gavarìa conossùo».
Nel cuore dell'artigianato. Era lì che batteva il cuore di Lucchetta, perché i vecchi mestieri gli trasmettevano sapere e arte. Si è formato culturalmente “alla corte” di don Luciano Padovese, di Renato ed Evia Appi, di Luigi e Andreina Ciceri.
Fu Giovanni Ellerani, da poco alla guida della categoria, a puntare su di lui come uomo-immagine. Lo aveva già visto all'opera come fondatore di due emittenti radiofoniche: LT1 Pordenone e LT2 Portogruaro (più avanti avviò in città la prima Tv via cavo, VideoRegione). Era un vulcano di idee. Ellerani lo prelevò all'Istituto Flora, dove insegnava geografia per sbarcare il lunario.
Lo convinse ingolosendolo con la nomina di responsabile delle pubbliche relazioni, ma non fu facile, perché aveva la testa rivolta al giornalismo. Lucchetta vantava un’ottima entratura, costruita negli anni degli studi al Collegio Filippin, che avrebbe potuto attivare per l’assunzione al Corriere della Sera. Ma la madre, a cui era legatissimo, mise il veto che a lui mai dispiacque.
Era marzo 1975 quandò varcò la porta dell’Unione artigiani: in poco tempo fu nominato direttore, diventando padre padrone dell'associazione provinciale e, successivamente, di quella regionale. Al culmine della carriera poteva fare quello che voleva, compreso l'approdo stabile a Roma.
Ma non si mosse da Pordenone: «Qua ghe xè le me radici». Non poté rifiutare però l'incarico al Centro studi nazionale della Confartigianato, diventando il punto di riferimento dello storico presidente Manlio Germozzi. Lucchetta era definito l'homo Faber, simbolo della creatività: lavoro, cultura, futuro. Dei suoi artigiani apprezzava la capacità di allungare la mano nella materia incandescente, per plasmarla: il ferro, il legno, la pietra, il tessuto, la terra. Diventò così il “cantore dei mestieri”.
A lui interessava l'anima del lavoro: la grande umanità dell'artigiano, perché vedeva in lui l'uomo che vive nella sapienza di ciò che sa fare. «Un mestiere è un granaio» ripeteva, proponendo il proverbio a lui più caro, che gli permetteva di legare assieme tradizione e innovazione.
Il graffio della satira. Lucchetta mantenne acceso l'amore per il giornalismo. Aveva in testa l'idea di pubblicare un foglio satirico-umoristico. La testatina era già pronta: “Il Non…ce…llò”. Alla fine, si accontentò di una “finestra” di satira sul Messaggero Veneto.
Il primo fax giunse in redazione di sabato: nacque la rubrica “La domenica andando alla Messa”, che comprendeva una serie di frammenti di vita dal “palazzo”. Ogni frase, di fatto, era una vignetta scritta, densa di humor.
Nel mirino non c'erano soltanto i personaggi politici, ma anche la vita quotidiana pordenonese. Uno scrittore creativo come lui non amava farsi imporre dei paletti. Così il fax della redazione gracchiava in continuazione: le cartelle raddoppiarono, tanto da dover inventare il secondo appuntamento settimanale, “Giove Pluvio”. Le rubriche non gli bastavano più: «Vùstu meter tignir in man un libro? Saria una figada».
Lucchetta si arrangiò a confezionare il prodotto, grazie ai suoi rapporti con la tipografia Ellerani. Tutto ciò che veniva pubblicato nel corso di un anno entrava nella raccolta “Porcus Naonis”: uno, due, tre, quattro, cinque volumi; pagine e pagine di provocazioni sulle magagne della città, scritte a mano e pazientemente riordinate dall'infaticabile Lucilla Vignando, la segretaria di una vita. Per non creare conflitti fra i giornali, esaurito il filone con il Messaggero Veneto, ne avviò un altro con il Gazzettino: “Uno sguardo dal ponte, ovvero Adamo ed Eva, quatro ciacole in riva al Nonsel”.
Pordenone senza identità. Con Lucchetta si discuteva soprattutto di radici. La pordenonesità era la sua ossessione: «Varda Udine, là i xè unidi. Sol che noialtri non gavemo patria né blason». E affilava la lama tagliente della satira contro «i tanti nani che ghe xè in giro e che i se gode a far dani». Non tollerava che si lacerasse, tra l'indifferenza generale, il tessuto di umanità. Troppo era già andato perso della vecchia Pordenone studiata nei libri.
Collezionava tutto quanto gli potesse servire per ricostruire la storia. E ciò gli permetteva di fare raffronti severi con il passato. Si proponeva così come sentinella degli ultimi baluardi, preoccupato che scomparissero anche gli angoli più suggestivi. Pordenone perdeva quota e con essa i luoghi “de alegria e de bon umor”. Varcando la storia del nuovo Millennio, Lucchetta volle offrire le prove concrete degli scempi urbanistici.
Così convinse i suoi artigiani a ricostruire, con polistirolo e cartapesta, i simboli della “città che non c'era più”: le due porte, quella Furlana, a ridosso del fiume Noncello, e quella Trevisana (o della Bossina), all'entrata di corso Vittorio Emanuele. Ripristinò il cuore della contrada medievale in contatto diretto “col Nonsel el nostro fiume”. Non contento, recuperò il “nobile interrompimento”, che sino agli Anni Sessanta faceva da quinta a “piassa de Mota”.
La sua era diventata una vera e propria lezione di rigenerazione urbana. La sua pordenonesità era ostentata in giro per il mondo. Luchetta era sempre a caccia di segni storici. Li cercò anche in Cina, durante uno dei suoi ultimi viaggi. «Maurizio, con gli occhi lucidi, la cinepresa al collo e gli occhialini rotti - così lo ricorda Giovanni Pavan, presidente della Camera di commercio - mi raccontò la sua scoperta. A Pechino, all'interno di un parco, trovò una statua che ricordava il passaggio del Beato Odorico da Pordenone».
L'ultimo dei bohemiens. Quando capiva che i sentimenti si stavano affievolendo, Lucchetta recuperava i rapporti con i personaggi più stravaganti, capaci di esprimere una carica straordinaria di umanità. Allora si appoggiava agli “artisti di strada”, gli unici in grado di aprire delle crepe nel muro del conformismo. Un riferimento importante era Gino Marta, che definiva l'ultimo dei bohemiens, il pittore maledetto.
Perché proprio lui? Semplice. Marta (dottor professor Gino, come di solito si presentava) era una sorta di “menestrello del colore”, con il cavalletto a tracolla e l'immancabile tela sotto il braccio: sapeva cogliere le bellezze di Pordenone, dipingendole. Così restituiva vitalità agli angoli più anonimi di una città che aveva già bruciato in fretta e furia il suo passato.
Lo fece a colpi di pennello, con dipinti ricchi di passione, che offriva a quattro soldi. Dopo la morte dell'artista, Lucchetta riuscì a raccogliere per un'esposizione in Fiera centinaia di opere sparpagliate in numerose abitazioni, dando lustro a un personaggio dai comportamenti eccentrici, fin dall'abbigliamento, che un sondaggio di radio LT1 proclamò come il più popolare, capace di staccare in classifica Alvaro Cardin, un altro simbolo della pordenonesità (poi sindaco con il record di preferenze).
«Noi andiamo per quadri di Marta - spiegò Lucchetta a chi non capiva il valore delle scelte - perché vogliamo proporre la sua visione di Pordenone a quanti hanno nel cuore gli affetti della città e vedono nei luoghi non soltanto i metri cubi, ma anche qualcos'altro: pezzi di storia, momenti lirici, nostalgie». E l'effige di Gino Marta diventò il “soldo del Carnevale”, inventato da Lucchetta per finanziare le manifestazioni, quando in città c'era ancora il Carnevale, come usanza da vivere in piazza con misurata goliardia.
Il testamento spirituale. Quasi fosse il presagio di una fine prematura, l'ultimo scorcio di vita fu il più proficuo. Riuscì a portare a termine i lavori di documentazione che gli stavano a cuore: il catalogo dei vecchi mestieri e il volume fotografico “Un passo indietro”, una storia per immagini di uomini e imprese.
Chiuse così la grande collana sugli artigiani inaugurata da una carrellata di libri “Figli d'Arti” dedicati al passaggio generazionale di numerose aziende. Prese consistenza il testamento spirituale di Lucchetta, quello che raccolse la passione che lo portò a una vita “disordinata”, senza orari, esploratore ramingo da un luogo all'altro. Visse la città fino all'ultimo respiro, perché a lui piaceva “stare nella comunità”. «Mi son cussì - confidava - e non tornaria mai indrìo, anche a costo de s'ciopàr».
Le ultime pubblicazioni costituirono il dono di Lucchetta alla sua terra. Un atto di valorizzazione del lavoro attraverso la “sapienza del fare”. Il concetto è stato sottolineato in una delle prefazioni: «Non esistono soltanto gli anfiteatri e le basiliche, né i castelli e i palazzi; esistono anche i magli, i mulini, le case rurali: strutture che testimoniano modelli di vita scomparsi».
Era l'incoraggiamento a non disperdere la memoria, perché la vocazione imprenditoriale è il patrimonio genetico che si forma nella storia. Le attività di oggi non sono altro che il frutto di una progressione temporale. Per dare concretezza a questo principio, Lucchetta stava lavorando all’istituzione di un Museo dell'artigianato a Pordenone.
Non poté mantenere l'impegno con il collezionista Gino Argentin per mettere a punto il progetto: morì poche ore prima, all'uscita dal teatro di Udine, dopo la festa dei sessant'anni dell'associazione friulana. Era il 10 aprile 2015. Per coronare l’idea del Museo pensava a uno spazio all'interno del vecchio cotonificio di Borgomeduna (dieci anni fa circolava un piano di ristrutturazione).
Non se ne fece più nulla: oggi l’edificio è in rovina. Sarebbe stata un'occasione importante per Pordenone, di cui percepiva ormai i segni della crisi. Non è un caso che Lucchetta abbia affidato proprio al Processo della Vecia (poche settimane prima della morte) uno dei moniti più struggenti: «Finimola de segarse l'un co' l'altro. Gavemo bisogno de darse una regolada. Adio Pordenon adorada, te voio tanto ben. Adio».
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