Morte sull'Eiger

Il dramma di Claudio Corti e Stefano longhi
di Giovanni Capra e altri

Corbaccio

Prima edizione 2007

220 pagine
20,00 euro

di Luciano Santin

Di nuovo? Non bastava quanto se ne è già scritto? A trovarsi tra le mani
Morte sull’Eiger
, curato da Giovanni Capra e da poco pubblicato da Corbaccio, la prima reazione è suppergiù questa. Perché sulla tragedia di Claudio Corti, Stefano Longhi, Günter Nothdurf e Franz Mayer era a suo tempo uscito il bellissimo
Arrampicarsi all’inferno
di Jack Olson, e poi ne hanno scritto altri, tra cui il friulano Lino Leggio, sì che l’argomento sembrava approfondito e chiosato in maniera risolutiva. Non era così, invece. Nel corso delle sue ricerche (probabilmente quelle per
Due cordate per una parete
, libro in cui racconta della prima italiana alla Nord dell’Eiger compiuta da Armando Aste), Capra si è imbattuto in reperti iconografici che in Italia risultano sconosciuti o quasi. La ricorrenza dei cinquant’anni ha poi fatto il resto.


Morte sull’Eiger
viene, in effetti, definito “libro fotografico”. Non è una definizione esagerata, dal momento che gli scatti sono in tutto oltre un centinaio, quasi tutte inediti in Italia. Però le accompagnano testi non privi di interesse. C’è, ad esempio, la testimonianza di Albert Winkler, il fotografo svizzero che salì assieme ai soccorritori, carico come loro di un rotolo di cavo per il verricello, bivaccò in vetta, e documentò in maniera impeccabile l’operazione. E ci sono un’accurata cronologia dei fatti, i resoconti dei protagonisti, che confluiscono coralmente, le analisi dei titoli dei giornali, a firma di Daneil Anker, Rainer Rettner e Hermann Huber. Oltre, naturalmente, al contributo di Capra: «Un ragno dei Lecco nella ragnatela dell’Eiger».


La vicenda si rivelò all’epoca un concentrato di elementi da scoop, in parte anche forzati. Il primo salvataggio riuscito sulla Nord dell’Orco, lo straordinario concorso di volontari di ben sei nazioni, con Lionel Terray e il suo cliente Tom de Booij tra i primi ad accorrere, con Cassin e Mauri, Gramminger e Brandler. Ma anche il “giallo” della scomparsa di Nothdurf e Mayer, che scatenò assurdi sospetti nei confronti di Corti. Si disse che li aveva uccisi per rubare loro la tenda, che la ferita alla testa del lecchese non era dovuta alla caduta di un sasso, ma a un colpo di piccozza durante la lotta.


Infine, l’agonia pietrificata di Longhi, lasciato in parete per quasi due anni, ben visibile dai prati e dagli alberghi della Kleine Scheidegg, perché fomite di morboso richiamo per i turisti. Tutto questo (e anche il successivo recupero del corpo di Longhi), è ben documentato dalle foto, che svelano il teatro reale dell’operazione, assai più difficile in realtà di quanto lascino capire le pagine dei libri già scritti.

Si sapeva dell’inumana fatica di Alfred Hellepart, capace di recuperare il semivivo Corti imbragato sulle sue spalle, dell’eroico tentativo di Lionel Terray, che si fece calare, ma non riuscì a raggiungere Longhi per difficoltà di comunicazione, il buio imminente, e il rischio di una rottura del cavo. La situazione tremenda sembrava però essere limitata alla Nord: sulla vetta i soccorritori si trovavano relativamente al sicuro, e avevano da preoccuparsi solo delle manovre con il verricello.

Invece le immagini di Winkler (e anche degli altri che intesero portare a valle una testimonianza), mostrano i soccorritori impegnati a bloccare precariamente gli ancoraggi e a riavvolgere il cavo a mano “come animali da tiro” su una sottile cresta, in certi punti ventata a strapiombo, in altri ripida e rischiosa. Mostrano, ancora il viso sfatto e allucinato di Corti. E Stefano Longhi, al termine delle corde che lo assicurano alla meglio ad un esposto pulpito, mentre, schiena a valle, agita le braccia verso il velivolo venuto in ricognizione.

E mostrano l’attrazione malata esercitata da quella plaza de toros verticale che è sempre stata la Nordwand: cannocchiali puntati sulla parete, fotoreporter alla base, ragazzi, persino, che attorniano incuriositi l’“evento” del recupero, quando è questo è prossimo alla Kleine Scheidegg.
Vale la pena però di considerare anche i testi, che rendono giustizia a Claudio Corti. Oggi quasi ottuagenario, molto malato (mesi fa gli è stata amputata una gamba), è stato segnato per sempre dalla vicenda.

Come detto, fu considerato un assassino da alcuni detrattori, guidati dall’ex SS Heinrich Harrer. Il quale, una volta che le spoglie dei due tedeschi vennero ritrovate sul versante ovest, prova inconfutabile che erano usciti in cima e stavano scendendo a cercare soccorsi, non inserì l’aggiornamento nelle riedizioni del suo
Il ragno bianco
, né rispose alle lettere (le ultime pochi anni fa) che lo invitavano a prendere atto delle nuove prove.


Anche dagli italiani Corti non fu trattato bene. Il Cai non lo difese; Mauri e Cassin gli imputarono una temerarietà che sarebbe costato la vita al povero Longhi, considerato tra l’altro non all’altezza (e la querelle seguita in seno ai Ragni, provocò le dimissioni di Cassin, messo in minoranza).

Pure il ragazzo di Olginate aveva dei numeri («L’ho visto ripetere la “Rovereto” allo spallone del Campanil Basso: a un certo punto è passato su diritto su quegli strapiombi rossi. Ha fatto una via nuova e nemmeno lo sapeva», racconta Armando Aste); e Longhi non era così impreparato, vista la sua resistenza di dieci giorni, prima di morire di fame, freddo e sfinimento.

A nuocere più di ogni altra cosa a Corti fu, probabilmente, quello che disse, con un filo di voce, una volta portato in vetta: «Mi riconosceranno la prima salita italiana all’Eiger?». Una domanda che fece scandalo, sia perché formulata dall’unico sopravvissuto di due cordate, issato di peso sugli ultimi trecento metri della via. C’è però da tener presente che il lecchese era sconvolto, e che forse, nell’attesa tra il soccorso e la morte, la riuscita nell’impresa può essergli parsa l’unica via d’uscita psichica e morale cui aggrapparsi.

Il mezzo secolo trascorso ha consegnato alla storia il dramma del ’57. Oggi i soccorsi si fanno con elicotteri e long line. Rimane, a suggello, la bella frase di quel cavaliere senza macchia e senza paura che fu Terray: «Il salvataggio sull’Eiger è stato un esempio magnifico di ciò che è possibile realizzare col coraggio, l’entusiasmo e la volontà. Non fosse che per questo, deve essere considerato come una grande impresa riuscita».

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