"Noi nonni che abbiamo visto le atrocità della guerra vi raccontiamo cosa vuol dire vivere l'emergenza coronavirus"

Le testimonianze e le storie di dieci anziani che vivono questo momento in casa: c'è chi inganna il tempo realizzando mascherine per la comunità e chi ricorda tempi più difficile, quando non c'era nulla da comprare e si pativa la fame. Tra queste c'è anche il racconto di Maria che, con i suoi 102 anni, ha vissuto anche la pandemia di spagnola.
Erta Ponta (Treppo Grande). Sono tempi peggiori del terremoto. Allora, nonostante la tragedia, si andava in chiesa, in cimitero, ci si incontrava. Oggi bisogna stare distanti». Erta Ponta, 86 anni, abita in centro a Treppo Grande. Nel paese collinare, Erta trascorre le sue giornata di isolamento nel cortile della casa di famiglia, potendo contare sulla coetanea vicina con la quale può scambiare qualche chiacchiera all’aperto, in rigorosa distanza.
Classe 1933, un’esperienza di questo tipo non ricorda di averla mai vissuta: «Certo – dice – ho affrontato i tempi di guerra, ma quando si è bambini non si prende molto sul serio quello che accade. Il terremoto è stata il peggior momento che ricordi, ma adesso è quasi peggio. Certo, allora ci sono stati i morti, qualcuno ha perso la casa.
Ma il fatto è che allora ci si cercava, c’era bisogno di stare insieme. Ora siamo costretti a stare chiusi da soli». A Erta le giornate trascorrono velocemente. Oltre alle faccende domestiche si è anche messa a disposizione per realizzare le mascherine con i materiali forniti dal Comune: con un'amica ne realizza 50 a testa.
Silvana D'Agaro (Rigolato). Seduta sulla sua poltrona Silvana D’Agaro trascorre il pomeriggio guardando la televisione, anche se non sempre con troppa attenzione. Impossibilitata a camminare agevolmente cerca così di far passare le lunghe giornate segnate dal Covid-19. «Vivo sola, non voglio essere di peso a nessuno, e fin che posso, me ne sto a casa mia. Ma comunque ho bisogno di aiuto. Per fortuna mia figlia Clara e suo marito, da poco in pensione, abitano vicino, a Ludaria».
Così la figlia può assistere ed accudire l’anziana madre, che ha 90 anni, facendole da mangiare. «Pranziamo quasi sempre assieme. Non posso lamentarmi dell’affetto e dell’aiuto dei miei figli». Silvana è una persona schietta. «Sono uan donna carnica che ha sempre lavorato, nella campagna, con le bestie. Ho vissuto con nostri vecchi e aiutato i miei figli a crescere i loro figli. Ora passo il tempo facendo dei cruciverba, poi la televisione». «È peggio della guerra - dice - . Quanto sta accadendo con questo virus è ancora peggio. Non mi sarei mai aspettata di dover passare anche questa brutta avventura.
Gelmino Mariuzzi (Terzo d'Aquileia). La memoria storica di Terzo di Aquileia è Gelmino Mariuzzi. Classe 1934, ha fatto in tempo a vedere quella che fu la tragedia della Seconda guerra mondiale, ma anche gli abitanti di una piccola realtà pronta a rialzarsi e ripartire. Aveva 11 anni e si ricorda del coprifuoco che c’era a Terzo e San Martino.
Fino alla terza elementare ha seguito il percorso scolastico, poi, anche a causa della guerra ha abbandonato la scuola per andare a lavorare nei campi. È sempre stato all’avanguardia nel cercare dei nuovi mezzi che potessero essere utili ed efficienti nel lavoro in campagna, che prosegue ancora oggi. Racconta di una comunità unità e coesa, soprattutto nell’Italia del secondo Dopoguerra, in cui le famiglie forse avevano economicamente di meno ma c’era maggiore collaborazione e aiuto.
Oggi, nonostante questo momento di emergenza e di crisi, è fiducioso. «Un grazie al nostro sindaco Giosualdo Quaini, che fa molto per la comunità in questi difficili giorni». Ogni giorno i suoi figli, Gianni, Mauro e Michele lo chiamano e lo sentono per telefono.
Aldo Ruffati (Pordenone). «Durante la seconda guerra mondiale? Per certi versi era meglio: il coprifuoco scattava alle 19. Negozi? E cosa voleva comprare: non c’erano né soldi né beni. Mia sorella andava una volta ogni quindici giorni, in bicicletta, a prendere due chili di farina a Fiumicello. Oggi c’è il virus, ma quella volta c’erano i rastrellamenti dei tedeschi. E le assicuro che non erano bellissimi».
Aldo Ruffati, fondatore dell’omonimo gruppo industriale di San Quirino, a 96 anni sta chiuso in casa, a Pordenone, in attesa del “rompete le righe”. «Leggo romanzi, il giornale, mi faccio da mangiare: cucino bene sa? Cerco di tenere pulito, ma la pulizia degli uomini non è perfetta come quella delle donne. Ringrazio le mie figlie, provvedono loro. E aspetto».
Nell’ottobre 1938, a 14 anni, lavorava alla Zanussi: «Eravamo 75 operai, Antonio era titolare, Lino aveva 16 anni. Si producevano cucine economiche e fornelli. E la stufa Porcellino ordinata dai tedeschi per scaldare i loro soldati in tricea, in Russia». Poi andò alla Safop di Pietro Coran.
Nel 1943 Aldo Ruffati era militare a Pola, nella marina. Dopo l’8 settembre la fuga. «“Devo andare in bagno!”, dissi ai tedeschi. Sapevo che c’era un buco nel muro e fuggii. Venni bloccato dai partigiani, ma parlavo il loro dialetto e mi lasciarono. Dopo 4 giorni di cammino arrivai a Parenzo, da lì presi il battello per Grado, perché a Trieste i tedeschi facevano i posti di blocco. Dopo cinque giorni di cammino ero a Pordenone».
Il clima in tempo di guerra? «Allora si stava a casa, perché non c’era nulla. I tedeschi, per tenerci sotto controllo, portavano di notte gli uomini dai 18 ai 55 anni, e io lo dovetti fare con mio padre, a controllare i cavi della corrente da largo San Giovanni a Roraigrande. Poi ci riportavano a casa».
Le corse ai supermercati? Qui Aldo Ruffati sorride: «A comprare cosa? Non c’era nulla». Paura? «Quando passavano gli aerei si andava sul prato a vederli. Una volta, verso mezzogiorno, un apparecchio gettò una bomba a spezzoni che uccise cinque studenti di ritorno dalla scuola, in via San Valentino. Oggi le scuole sono chiuse. Due volte evitai i bombardamenti».
Oggi sono chiuse anche le fabbriche. «Allora no, ecco perché oggi a mio avviso è peggio. Senza una rete di produzione non si va avanti molto». Se la gente esce viene multata. «Durante la guerra se uscivi ti portavano in Germania. Vennero a cercarmi, mia madre disse che non c’ero. Minacciarono di incendiare la nostra casa. Dissi: “Mamma, a questo punto mi siedo qui. Se tornano, mi prenderanno. Ma non mi consegno. Non tornarono, per fortuna».
Oggi il nemico è invisibile, è un virus, non è un uomo. «E io obbedisco, resto a casa. Per fortuna in salute. La mia cucina, evidentemente salutare, mi ha portato ai 96 anni.
Maria Marcon (Zoppola). «Ho fatto l’esame di quinta elementare nel 1944: il direttore, arrivato da Casarsa in bicicletta, dopo l’interrogazione ci disse di andare velocemente a casa. C’era la guerra: quella di oggi è un’altra guerra. Per questo penso spesso alle ricadute sugli studenti dell’emergenza coronavirus: anche loro, come accadde a noi, vedranno modificato il percorso di studio».
Maria Marcon ha 87 anni, abita a Zoppola, dov’è nata. Ha la battuta pronta, parla in modo gentile: rivolge lo sguardo al passato e, confrontandolo con il presente, vede similitudini. Che la spaventano. «Un presente difficile, un futuro a tinte fosche. «Noi che abitiamo in campagna abbiamo un po’ di giardino, l’orto, un po’ di verde: chi vive in città, in appartamento con bambini piccoli, come fa a gestire questa situazione? – si chiede l’anziana –. Speriamo che l’ergenza finisca presto, dopo però ci sarà da ricostruire il Paese».
«Ho realizzato 20 paia di calzini per chi me li ha chiesti – racconta –, ora non faccio niente perché non posso muovere il braccio». Si informa, però, scava nei ricordi, nella durezza della guerra.
Arnaldo D'Agaro (Rigolato). In montagna il numero di famiglia con un solo componente sono tanti, molti in età avanzata. A Ludaria da 20 anni, dopo la scomparsa della moglie, a vivere da solo è l’86enne Arnaldo D’Agaro che nonostante gli acciacchi dell’età si dice ottimista e «mi gestisco da solo, anche se a volte ad aiutarmi si fanno avanti la Protezione civile e la Sogit».
In particolare un contatto quotidiano è con un amico. «Passa a trovarmi, sempre mantenendo le debite distanze, ogni mattina per verificare se ho bisogno di qualcosa. Teme sempre di trovarmi morto, disteso a terra». Un timore che Arnaldo, per reduce anche da gravi problemi di salute, tiene a fugare con ottimismo. «C’è gente che sta sicuramente peggio».
Da giovane Arnaldo entrò nella Polizia del governo militare alleato, poi si trasferì a Trieste all’università di geologia marina dove per 42 anni ha lavorato in un laboratorio di analisi di sedimenti marini. «Da pensionato mi sono fatto incantare dai luoghi della mia gioventù, dove ricordavo tanti affetti». Un vero richiamo della foresta che lo fece trasferire assieme alla moglie in Carnia. Ha una figlia che vive a Parigi e che sente al telefono.
Maria Pilosio (San Giorgio di Nogaro). Vivere fino a 102 anni tra due pandemie. Maria Pilosio, vedova Macor, di San Giorgio di Nogaro, sembra esserne immune. Tutto inizia il 5 febbraio 1918, quando, in piena Grande guerra, Maria nasce a Villanova della Cartera in comune di San Michele al Tagliamento.
Qualche mese prima i bolscevichi, con la rivoluzione d’ottobre, strappano il potere allo Zar e Lenin firma un cessate il fuoco permettendo il trasferimento di decine di divisioni austro-tedesche dal fronte orientale a quello italiano. Il 24 ottobre 1917 con la disfatta di Caporetto le truppe nemiche dilagano in Friuli e in parte del Veneto. Sul Piave resistevano 35 divisioni italiane che vincono le 55 austro-tedesche salvando l’Italia e l’Intesa dalla capitolazione.
Se l’Italia fosse uscita di scena tutte le forze imperiali si sarebbero riversate sul fronte occidentale offrendo un supporto decisivo all’esercito tedesco. La famiglia di Maria non fugge all’arrivo degli austriaci. Viene battezzata nel febbraio del’18 ma, essendo il comune di San Michele invaso dagli austriaci, viene registrata all’anagrafe solamente a novembre di quell’anno, dopo la ritirata degli occupanti.
La pandemia chiamata Spagnola, dai primi che ne diedero notizia, inizia a mietere vittime nella primavera del 1918 e dopo una prima ondata non particolarmente mortale ne subentra, a fine estate, una seconda devastante. Fortunatamente la piccola Maria ne esce indenne. Come lei stessa racconta, «finita la guerra i contadini, e quindi anche la mia famiglia, siamo vittime dei proprietari terrieri che, tornati dal loro esilio, pretendono la parte mezzadrile e le regalie anche per l’anno di invasione, ben sapendo delle razzie totali compiute dagli austriaci».
Nel 1936 Maria, assieme a tutta la famiglia, si trasferisce a Chiarisacco di San Giorgio di Nogaro. Conclusa la Seconda guerra mondiale, in cui si prodiga anche come infermiera, sposa nel 1946 Adriano Macor da cui ha 4 figli, Giorgio, Renata, Luciano e Paolo. A 96 anni viene colpita da ischemia e attualmente riesce ancora, seppur con l’aiuto dei figli che l’assistono, a camminare e tenacemente sorride a scapito di una vita fatta di sofferenze, privazioni e sacrifici comune a gran parte di una generazione abituata a combattere. L’attuale, seconda, pandemia sembra non scalfire la tempra di nonna Maria che, a 102 anni, rimane tra gli ultimi testimoni di un passato funestato dalle tragedie.
Cipriano Gialuz e Lina Zorzin (Fiumicello). "Abbiamo sempre viaggiato molto, in Inghilterra, a Parigi, a Praga, abbiamo conosciuto l’Europa e l’Italia col camper, adattandoci alle situazioni pur di conoscere quanto più possibile del mondo, adesso è davvero difficile accettare questa emergenza, ma abbiamo sempre nel cuore le nostre esperienze».
Comincia così il ricordo di Cipriano Gialuz e di sua moglie Lina Zorzin. «Non è mai successa una situazione di questo tipo, neanche durante la guerra, forse c’è ancor più paura adesso». La guerra il signor Cipriano, che oggi ha 82 anni, l’ha vissuta sul serio, e ricorda i tempi in cui, durante i bombardamenti si nascondeva, lui e la sua famiglia, dentro a un bunker autocostruito.
Momenti difficili, inevitabile il confronto con quelli che stiamo vivendo in questi giorni, anche se non c’è il pericolo delle armi, ma una ritrovata coesione e unità nel seguire assieme il momento tragico. Oggi, dopo 65 anni di matrimonio, Cipriano e Lina sono più uniti che mai, aiutati in questo periodo dal figlio Alessandro che dà loro supporto e sostegno. Un grazie a anche ai volontari che li aiutano nell’acquisto e il servizio per spesa e medicinali.
Giovanna Gressani (Rigolato). Giovanna Gressani, conosciuta a Rigolato come Giovannina, è la nonnina del paese. classe 1921, è la persona più vecchia della borgata, 98 candeline. Giovannina vive sola, la sua abitazione dà sulla piazzetta dove si trova la fontana ed il bivio che porta a Ludaria. «Come passo la giornata? Non è facile. Ho difficoltà a camminare, dove usare il girello o le stampelle, e come tutti sono costretta a casa».
Una situazione che la limita in diverse attività e questo le allunga la giornata. Con il bel tempo però di questi giorni ne approfitta per prendersi una boccata d’aria e per godersi il sole. Lo fa seduta sulla terrazza che guarda la piazzetta antistante la sua abitazione. «Mi tengo aggiornata su cosa succede in Carnia e nel mondo leggendo il Messaggero Veneto, ma la vista è quella che è e spesso devo utilizzare una lente d’ingrandimento».
«Quello che sta accadendo, questo virus che ammorba l’aria mi fa impressione. Non sarà facile, non finirà così e soprattutto credo che non finirà presto». In paese non ci sono casi di positività. «La gente è ligia alle norme». Giovannina ha un passato di commercio di frutta e verdura all’ingrosso e al dettaglio, ha un figlio che da Udine le porta la spesa».
Romilda Bignulin (Aiello del Friuli). Ha 90 anni compiuti lo scorso 4 aprile Romilda Bignulin, che abita da sola nella piccola frazione di Joannis. Prima dell’emergenza usciva sempre con la sua bicicletta. Andava a fare la spesa e si fermava a chiacchierare con le amiche.
Ora, come tutti, deve rimanere in casa. «Mi pesa non poter uscire e non poter vedere i miei parenti ma non possiamo fare altro. Durante il giorno leggo il giornale, guardo la televisione e curo i miei fiori. Sento spesso i miei parenti al telefono ma non li vedo da tanto tempo e mi dispiace. È una situazione particolarmente complicata. Ho 90 anni ma non ricordo di aver mai vissuto una cosa simile. Il fatto di trascorrere tante ore da soli porta anche a riflettere».
Romilda sente la mancanza della sua autonomia ma ci confida anche la sua paura più grande. «Mi manca non poter decidere quando andare a fare la spesa o quando vedermi con un’amica ma quello che mi spaventa davvero è di restare sola, in ospedale, senza l’affetto dei miei cari, come è successo a tanti anziani. Non riesco a immaginare qualcosa di più triste. Spero che tutto questo finisca presto».
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