Non va a scuola per paura del virus, l’appello del papà: "Aiutate mio figlio vaccinando i vostri"

PORDENONE. «Si vive con la paura della malattia, con la sofferenza che ci sta dietro, con il fatto che sei recluso. È una sofferenza globale, e se uno deve aggiungere anche la preoccupazione dei virus che possono girare attorno a tuo figlio diventa un inferno».
È la considerazione di un padre che ha attraversato il calvario di una malattia oncologica del figlio piccolo. Lo scorso anno il bambino era ancora immunodepresso e avrebbe dovuto cominciare le elementari: ha saltato i primi tre mesi per i pericoli che avrebbero potuto arrivare dai compagni.
Poi la legge, una legge che non piace a tutti ma che ha fatto sì che, anche in Fvg, la copertura vaccinale dei bambini salisse sino a sfiorare i valori ottimali, garantendo così la sicurezza di chi non può essere vaccinato ma non può nemmeno rischiare di ammalarsi.
Lo spazio di pochi mesi, un cambio di governo, e quella sicurezza svanisce: dal nido alla scuola ci si andrà lo stesso, vaccinati e non. Una decisione che non tiene conto di chi, come questo bambino, non può scegliere.
Per la coppia del sanvitese quella della malattia oncologica è stata una diagnosi da togliere il fiato. Poi un percorso fatto di cure e protocolli per il piccolo, che si è dovuto sottoporre a cicli di chemioterapia.
Farmaco che se da un lato è efficace per combattere il cancro, dall’altro «abbassa i valori», crea uno stato di vulnerabilità verso virus e batteri e relative patologie.
«Era immunodepresso da chemioterapia - racconta il padre - e, pur essendo lui vaccinato, rischiava di prendere delle malattie. Se un bambino immunodepresso viene a contatto con un compagno con l’influenza, può essergli fatale. Vaccinarsi non deve essere considerato una scelta fatta solo per tutelare, ma anche per difendere le persone svantaggiate. Ci sono dei casi in cui gli altri non sanno che il bambino è immunodepresso».
Il bimbo, terminato un ciclo di chemioterapia, doveva iniziare la scuola elementare: i genitori nell’incertezza sullo stato vaccinale dei compagni hanno fatto una scelta sofferta e radicale: «Per lui - afferma - l’inserimento a scuola è stato ritardato di tre mesi.
Non potevamo essere sicuri che gli altri bambini fossero tutti stati vaccinati. Allora abbiamo deciso di mandarlo quando si è risolta l’immunodepressione».
Quando si affronta questa malattia «non si ha garanzia di niente, anche una banale influenza può risultare grave, ma se le famiglie cominciano a scegliere di non vaccinare i figli anche contro le malattie evitabili, come ad esempio il morbillo, dove andremo a finire?».
«Per mio figlio - prosegue - il periodo da immunodepresso è durato tre mesi, ma nei casi di leucemia più complessi si può arrivare a uno o due anni. La libertà di non fare le vaccinazione si scontra con la possibilità di essere portatori di malattie verso altri che non si possono difendere. Vaccinarsi è quindi anche un gesto di altruismo».
Adesso la fase di pericolo per il figlio è passata: «Noi non abbiamo più paura - sottolinea -, quel periodo è trascorso, ma la tutela della salute può anche scontrarsi con una questione di privacy opposta da persone che non vogliono comunicare di essere vaccinati oppure sono prive di difese immunitarie.
A volte può accadere che uno neanche sappia di essere immunodepresso. Il fatto di non vaccinarsi io la vedo come una scelta egoistica e antisociale». A maggior ragione se basata su teorie no vax che non hanno alcun fondamento scientifico.
«La scienza non ha colore politico e la verità non può essere messa in discussione da chiacchiere da bar. Il pericolo è che certe posizioni senza fondamento mettano a rischio la vita di persone malate a causa di gente sconsiderata».
Per questo definisce «abominevole» la proposta delle classi a misura di bambini immunodepressi «perché si creano disparità, distinzioni tra vaccinati e non vaccinati con enormi problemi anche di privacy perché bisogna dichiarare se un bambino sia vaccinato o meno, o se sia malato. Credo che sia impossibile da realizzare».
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