Nordest, il mito dissolto

Forse mai prima il Veneto ha avuto una reputazione così negativa e una capacità di rappresentanza così bassa. Le due questioni vanno insieme.
Il crollo della reputazione ha a che vedere con alcune specifiche vicende: in particolare, lo scandalo del Mose e il crac delle due banche popolari venete.
La comunità nazionale, al cospetto di questi episodi - che richiamano corruzione, incompetenza, inadeguatezza - di buon grado ha colto una occasione per ridefinire rapporti e gerarchie nei riguardi dei sedicenti primi della classe. Perché il Veneto, con il “mito del Nordest”, che aveva natura economica e in pari tempo politica, ha a lungo richiamato a sé un destino di leadership nazionale, giocata soprattutto sul tasto dell’autonomia.
Gli esiti di tale avocazione sono largamente visibili, e consistono nelle macerie delle banche e in un sistema di appalti pubblici sostanzialmente alla paralisi.
La polemica contro lo Stato nazionale inefficiente e incapace, corrotto e lento, si è infranta contro i nostri domestici fallimenti. E la voce dei vari attori della politica veneta, siano esponenti di governo o il governatore, i sindaci o i rappresentanti delle categorie economiche, non è mai stata tanto flebile e inascoltata in sede centrale.
Potremmo a lungo disquisire sul fatto che l’apparato dello Stato è comunque peggiore del sistema degli enti locali, potremmo discutere sulla nostra posizione in graduatoria in rapporto alle altre regioni, potremmo sostenere la differenza abissale tra Nord e Sud in tema di pubblica amministrazione.
Sta di fatto che non siamo più i primi della classe, che non siamo più percepiti come tali e che abbiamo paradossalmente contribuito ad affossare il processo delle riforme federali e a ridare fiato al neo-centralismo imperante.
Ma sarebbe improprio e del tutto scioccamente auto-assolutorio assegnare alla sola classe politica la responsabilità dell’attuale grigia e anzi mefitica stagione. Il crac delle banche popolari venete chiama in causa un intero ceto dirigente e ha carattere nazionale.
Con l’ironia che gli è propria, il neo presidente di banca popolare di Vicenza, Gianni Mion, ha di recente osservato che il suo predecessore Gianni Zonin è stato confermato per sette volte sette nelle assemblee dei soci e che, insomma, la sua satrapia è stata salutata dal favore generale. La medesima riflessione vale anche per Vincenzo Consoli, dominus assoluto di Veneto Banca pur esso per un quarto di secolo, ieri arrestato perché la magistratura gli contesta una «improvvida gestione del credito, che negli anni ha visto svuotare di consistenza il patrimonio della banca».
I giudici faranno il loro lavoro, noi dobbiamo osservare che abbiamo fallito in primis perché non siamo stati capaci di imporre un cambiamento delle regole e in primo luogo di porre un limite ai mandati di chi governava le banche.
Noi vessilliferi del federalismo e testimoni del principio dell’auto-riforma, abbiamo atteso che della riforma delle banche - contestabile peraltro - si occupasse con atto d’imperio il governo nazionale. Del ritardo pagano il conto soci, dipendenti, clienti delle banche e in generale l’economia veneta.
E il mancato rinnovamento dei vertici e delle regole delle banche diviene quindi non un astratto tema di principio, ma l’evidenza di una responsabilità precisa e storica gravissima. La comunità nordestina esce dal crac delle due banche drammaticamente impoverita, poiché è evaporato un patrimonio di almeno una decina di miliardi. Che è la materia - a parte aspetti prettamente di natura giudiziaria - di cui chi ha governato le banche deve rispondere.
La consapevolezza di tali evidenze non solleva di un grammo l’onere della colpa delle tante presunte autorità vigilanti, dal collegio dei sindaci, alle società di revisione, alla Consob, alla Banca d’Italia.
Se i bilanci di popolare Vicenza e di Veneto Banca sono materia di azioni così nette da parte della magistratura, forse forse qualche indizio era possibile coglierlo già nei documenti di bilancio da vari anni. Ma questo attiene ai vigilanti, gli attori protagonisti eravamo noi. Urge ricambio della classe dirigente, tempo di far entrare una nuova generazione. E di iniziare a discutere concretamente di riscatto, indicando percorsi e obiettivi.
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