Novemila pietre numerate, così il duomo è risorto
VENZONE. Novemila pietre numerate e catalogate compongono il puzzle del duomo di Sant’Andrea di Venzone. Usiamo la metafora citata dal professor, Remo Cacitti, venzonese e docente di Storia del cristianesimo antico all’università Statale di Milano, per raccontare la storia di un restauro diventata il simbolo della ricostruzione dei centri storici friulani.
Un restauro iniziato il 7 maggio 1976 quando venzonesi e non cominciarono a raccogliere i frammenti delle statue nelle chiese diroccate. I volontari accorsi a Venzone da tutta Italia e riuniti nel Comitato di coordinamento per il recupero dei beni culturali diretto da Cacitti che aveva ricevuto l’incarico dall’allora sindaco, Antonio Sacchetto, ritenevano che ricomporre il duomo significava impegnarsi per la riedificazione della città e di tutta la zona terremotata.
La catalogazione delle pietre proseguì per nove anni, dal 1983 al 1992, ne servirono solo tre per completare l’opera inaugurata nel 1995.
Ma torniamo al 1976 e all’estate in cui si firmava la petizione per l’università friulana. Giovani architetti, ingegneri, archeologi e storici dell’arte, «uniti da un’idealità, iniziarono uno straordinario lavoro di recupero. Pensi - sottolinea Cacitti - cosa significa smontare un altare trecentesco e tirarlo fuori dalla chiesa di San Giacomo distrutta dal terremoto».
Lavoravano senza sosta e si interrogavano sul futuro di Venzone e dei centri storici friulani. «Ci domandavamo: “Che significato ha questo lavoro? Per chi e per quale progetto salviamo questo patrimonio?” Al lavoro manuale e pratico si affiancava questa riflessione di ordine culturale perché era evidente che si era provocato un distacco tra quei beni e la comunità che quei beni nella storia aveva eseguito o commissionato». Erano convinti che l’identità friulana si salvava salvaguardando quel che restava della civiltà contadina.
Ma tra l'11 e il 15 settembre, quando un nuovo terremoto completò la distruzione, anche quei giovani volontari ebbero un momento di smarrimento.
«Non si può celarlo - ammette il professore - ci parve di vedere vanificato il lavoro». In quei mesi,a Venzone, era sorto anche il Comitato comunale di consulenza per la popolazione. «La gente che aveva le case ancora in piedi veniva a consultarsi, chiedeva in che modo si sarebbe potuto restaurarle. Il responsabile di questo comitato era l’ingegner Luciano Marchetti, capo ufficio tecnico del comune di Camerino.
Rinunciò alle sue ferie per lavorare a Venzone. Suo braccio destro era Francesco Doglioni, giovanissimo architetto, aveva 26 anni, a cui sarà affidato il progetto di restauro del duomo che il ministero approverà. Come forza intellettuale il progetto della Fabbriceria vinse su quello della Soprintendenza».
Quella fu la vittoria di Venzone. «Il nostro dovere intellettuale - aggiunge Cacitti - era proteggere quello che era rimasto». In questa progettualità, come la definisce Cacitti, «sono state coinvolte persone che non erano friulane, si sono guadagnate sul campo il titolo di friulane. Hanno combattuto con una spinta ideale straordinaria».
I comitati nati dal basso spronarono il dibattito, vinsero e persero perché, ricorda ancora Cacitti, «tranne la Chiesa nessuno ci aveva dato credito». Senza dimenticare che nella rimozione delle macerie più di qualcosa è andato perso. «La logica del compenso a metro cubo distrusse le case duecentesche davanti al duomo. Lo stesso arcivescovo Battisti, nel 1977, gridò che non tutto ciò che è legale è morale. Si riferiva a questi aspetti».
Ma torniamo al duomo ridotto in due monconi. «Tutto intorno giacevano 9 mila pietre. Allora il problema era quello di mettere insieme il puzzle perché il duomo aveva una ricca documentazione grafica e fotogrammetrica che restituiva l’immagine reale senza deformazioni» fa notare Cacitti senza dimenticare di evidenziare che la catalogazione manuale delle pietre partì per cura della Fabbriceria. I depositi di Rivoli bianchi erano impressionanti.
«Piano piano - continua il professore - siamo riusciti a stabilire quali pietre erano esposte a nord, sud, ovest e a est, quali fossero all’esterno e all’interno». Sono riusciti a catalogare tutte le pietre e a rifare il disegno a terra. «È bastato ribaltare quel disegno e rimetterle al loro posto. Questa è anastilosi». La vera scoperta è stata, sono sempre le parole di Cacitti, «trovare sul pavimento in cocciopesto del duomo precedente all’attuale, le incisioni, in scala uno a uno, di tutti gli elementi architettonici, con le correzioni in corso d’opera. Il pavimento era stato usato come un grande tavolo da disegno. Si sapeva che nel Medioevo si procedeva in questo modo, ma gli esempi sono rarissimi».
Resta il fatto che il 95 per cento delle pietre del duomo sono state recuperate. La battaglia è stata vinta anche perché la Carta del restauro di Venezia prevede un minimo del 75 per cento. «Noi - conclude Cacitti - l’abbiamo abbondantemente superato».
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