Omicidio Gobbato a Udine, «Si sentiva un fallito e progettò il sequestro»
UDINE. «L’azione è stata realizzata con coscienza e volontà». Magari agendo con un notevole grado di «immaturità criminale», ma, senz’altro, non prima di avere «studiato nei particolari, provato nei sopralluoghi e programmato con attenzione» il proprio piano. Nicola Garbino, quindi, «è pienamente imputabile».
Era stata questa la conclusione che, lo scorso 1° aprile, aveva portato il gup del tribunale di Trieste, Laura Barresi, a calcolare in 18 anni di reclusione la pena da infliggere all’assassino di Silvia Gobbato. Articolate in una quarantina di pagine, le motivazioni della sentenza sono state depositate in questi giorni.
Accoltellata lungo l’ippovia
L’omicidio era avvenuto nel primo pomeriggio del 17 settembre 2013, lungo l’ippovia del Cormôr, in località Plaino, dove Silvia, 28 anni, originaria di San Michele al Tagliamento e praticante legale nello studio udinese degli avvocati Ortis e Biancareddu, si era recata nella pausa per praticare dello jogging. Garbino, oggi 38enne, residente a Zugliano con i genitori e studente universitario fuori corso in cerca di un riscatto, economico e morale, all’immagine di “bamboccione” che sentiva incombere su di sè, le aveva teso un agguato.
Era uscito dalle radure - nelle quali era rimasto acquattato in attesa di scegliere la vittima più rispondente alle sue aspettative - e aveva cercato di afferrarla. Ma lei si era messa a gridare e lui aveva estratto un coltello e l’aveva colpita per sedici volte.
Poi era scappato, lasciando sul posto, bene nascosti, arma e abiti sporchi di sangue. Il caso si era risolto due giorni dopo: tornato sul luogo del delitto per recuperare le prove, era stato notato e fermato dai carabinieri. «Sono stato io – aveva immediatamente confessato –, è tutto nella borsa... c’è anche il coltello... ho fatto una cosa imperdonabile».
Attenuanti per il suo passato
Al termine del processo con rito abbreviato, il pm Federico Frezza, titolare dell’inchiesta dopo il trasferimento degli atti dalla Procura di Udine a quella di Trieste (competente per il reato di tentato sequestro di persona), aveva chiesto la condanna a 16 anni, tenendo conto anche della concessione delle attenuanti generiche. Attenuanti che il giudice ha ritenuto appunto di riconoscergli.
«Garbino è stato un ragazzo e poi un uomo solo – si legge nelle motivazioni – e chi gli è stato vicino non è stato in grado di percepire il disagio esistenziale che lo pervadeva. La serie di fallimenti e la volontà di affermare se stesso è alla base della scelta di effettuare il sequestro. Se la sua storia personale non è stata in grado di influire sull’imputabilità – continua –, è stata certamente la cornice entro la quale si è consumato il dramma. Garbino ha un passato di sofferenza del quale dovrà tenersi conto.
Ne consegue che vanno concesse le attenuanti generiche, in regime di prevalenza sull’aggravante, in considerazione anche – spiega – della condotta successiva, improntata a una fattiva e costante collaborazione, che non si è limitata al momento iniziale, come una sorta di liberazione da un peso ormai insostenibile, ma lo ha accompagnato in tutto il processo».
Anche in aula, il giorno della discussione, Garbino aveva letto una lettera di scuse alla famiglia della vittima.
Pienamente imputabile
Il processo si era giocato, in particolare, sull’imputabilità o meno dell’assassino. Tre le tesi a confronto: quella dei consulenti del pm e delle parti civili, avvocati Luigi Francesco Rossi e Federica Tosel, che avevano escluso sia che il disturbo di personalità schizoide diagnosticato a Garbino avesse inciso sulla sua capacità d’intendere e di volere, sia che l’azione fosse dipesa da un raptus; quella del consulente dei difensori, avvocati Manlio Bianchini ed Elisabetta Burla, che aveva sostenuto un’incapacità parziale e parlato di «reazione a corto circuito»; e quella del perito del tribunale, che aveva concluso per «una capacità diminuita, ancorchè non grandemente scemata».
Il giudice, fatta propria la considerazione dello psichiatra della pc, Alessandro Meluzzi, ha separato ogni considerazione sul «portato di esperienze e frustrazioni» di Garbino dalla valutazione sulla sua imputabilità, e ha riconosciuto nella ricostruzione dei fatti tutti gli elementi necessari a parlare di «progettualità» e «logica». Mentre la colpiva, insomma, sapeva quel che faceva.
«Ciò che manca – ha concluso il giudice –, allora, è solo il finale desiderato: la riuscita del sequestro». Che, nelle sue fantasiose previsioni, gli avrebbe fruttato un riscatto di 50 mila euro.
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