Palmanova come Pompei e il Colosseo, ecco la “Stella cadente” del Friuli

Ma quale Pompei, ma di quale Colosseo parlate, ma come potete rimanere inerti di fronte a questo sfregio della storia! E non mi venite a raccontare che ci sono tante altre ricchezze bisognose di soccorso nel nostro Paese. Non raccontatemelo, perché già tutti lo sanno. E se ne infischiano. Ma del crollo di un pezzo di Porta Udine a Palmanova non potete infischiarvene, anche se i tecnici si limitano a prendere atto che si tratta «soltanto di una tavella».
Una tavella piovuta dal cielo, un cielo bigio che sta spegnendo tutte le stelle, compresa quella a nove punte che gli sciagurati veneziani pensarono di costruire oltre 400 anni fa per difendersi dai turchi che spadroneggiavano in questi territori. Una costruzione inutile, perché lo scontro non ci fu e la fortezza è rimasta lì, argomento di studi urbanistici, esemplare ineguagliato in tutto il mondo. E adesso mi vengono a dire che bisogna metterci mano, altrimenti quei bastioni andranno a farsi benedire. Statemi a sentire. È come se giocando a calcio ricevessi una pedata in un ginocchio e non potessi continuare la partita. Porco boia, così non va.
No, non va. A Palmanova io ci sono nato, ragazzi, sono mica balle. Non importa quanti secoli fa, per me è sempre ieri e io sono rimasto quel ragazzino che quando non c’era scuola andava proprio in quell’androna chiusa a chiave da secoli che si trova entrando a destra per chi viene da Udine.
Ci andavo perché mio nonno Armando (che senza sapere il motivo tutti chiamavano Gerundio) lavorava proprio lì, spacciandosi per falegname dopo essersi impegnato prima dell’ultima guerra come maresciallo dei vigili del fuoco insieme con i fidatissimi sodali propensi a utilizzare più la spremuta d’uva che l’acqua fresca e scorrevole fornita dal Ledra per arricchire la fossa intorno ai colossi murari lungo i lati della stella. E adesso mi venite a dire che un pezzo di tetto della mia Porta Udine si è sbriciolato, intasando l’asfalto su cui si riverberano le tre luci degli inossidabili semafori.
Una tavella, porco boia! Brava gente, fermi tutti. Qui non si tratta di un calcinaccio che risparmia l’improvvido pedone che passa sotto, prendi la pala, riempi la carriola e scarica tutto dove meno si può vedere. Sapete cos’è Palmanova? È abbastanza secondario che sia il mio paese natale e non insisto su questo tasto che sicuramente mi vedrebbe trionfatore con un pronto intervento per tamponare i guai attuali; qui ci troviamo nell’urgente necessità di dire basta agli incolti, agli inetti e a chi scambia un gioiello per un’insulsa realtà.
Pochi giorni fa, una triste ricorrenza mi ha portato nel cimitero di Palmanova, da dove lo sguardo si estende sul digradare dei prati ancora pudicamente verdeggianti, puntellati da costruzioni adagiate a precisa distanza l’una dall’altra, nelle quali diventa spontaneo assorbire l’atmosfera napoleonica che vi aleggia.
Lo scenario si ripete, con l’innesto di altre secolari costruzioni oltre le quali per una decina di chilometri si immagina il cuore pulsante di una comunità alquanto particolare. Vivere dentro le mura rappresenta una meta e forse è soltanto l’espressione di un’inarrivabile burla l’intitolazione della strada che proprio da Porta Udine conduce ai cipressi: via del risorgimento, si chiama. Così è comprensibile il comune desiderio di risorgere, cioè di tornare a vivere in assoluta serenità.
Ma sarà vero? O tra breve si dovrà cambiare nome a quella via per dedicarla alla tavella? Pare che tutto si muova in questa direzione, o meglio, pare che tutto sia immobile in attesa che il tempo – il magico tempo – decida del futuro di una stella che il mondo dovrebbe invidiarci, ma non lo fa perché non la conosce abbastanza. I segnali di una disfatta già abbondano: i bastioni in gran parte nascosti da una selvatica flora sono rimpiccioliti e non si oppongono più alla veduta della punta del campanile che sta in piazza, o della vasca dell’antico acquedotto inutile accanto al vecchio ospedale, o del camino della scomparsa filanda: pare che tutto coincida con l’ineluttabile resa allo scorrere dei secoli.
C’è chi vi si oppone, certo, ma è come suonare le campane a morto per un battesimo; nessuno è in grado di farsi carico del problema rappresentato da una cittadella unica al mondo che ha in sé tutti i requisiti di un gioiello: peccato si stia offuscando. La fascia interna dei bastioni è quasi interamente costituita da caserme, la gran parte delle quali è inutilizzata da quando le forze armate sono state trasferite altrove, dimezzando così la popolazione residente.
L’atmosfera è quella che Dino Buzzati creò nella Fortezza Bastiani in un deserto di Tartari nell’attesa di un nemico che non arrivava. Qui invece ci siamo, l’attesa è da decenni alle spalle e le speranze di un salvataggio della fortezza palmarina si fanno sempre più tenui. Ora sono riposte nell’Unesco, al quale ci si è rivolti perché l’intera cittadella sia inserita tra i beni culturali dell’umanità.
Non so a che punto stiano le trattative, i sopralluoghi, le valutazioni, le concorrenze e così via; credo comunque di non essere lontano dal vero temendo la lunghezza dei tempi per la decisione finale, a maggior ragione se si considerano le difficoltà economiche in cui non soltanto l’Italia, ma il mondo intero si dibatte. Resistere è un verbo tornato di moda, bisogna gridarlo a squarciagola affinché si espanda oltre i bastioni prima che si trasformino in una spianata. Se ci rimangono tavelle, le regaleremo al Colosseo.
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