Paolo Villaggio, quella gaffe sui friulani e poi la telefonata di scuse

Dando l’addio all'attore e scrittore non possiamo però scordare quella parentesi di incomprensione e anche di incredulità, tra lui e i friulani, collegate a un paio di frasi contenute in un suo libro edito da Mondadori nell’ottobre del 2011
Paolo Villaggio, Milena Vukotic (S) e Mara Venier durante una puntata di Domenica in , Roma 22 settembre 2002 DANILO SCHIAVELLA/ANSA
Paolo Villaggio, Milena Vukotic (S) e Mara Venier durante una puntata di Domenica in , Roma 22 settembre 2002 DANILO SCHIAVELLA/ANSA

UDINE. Il ragionier Ugo Fantozzi ha indagato per mezzo secolo su chi sia “l’uomo senza qualità” che abita in quello strano paese chiamato Italia, tra debolezze, sottomissione, opportunismo. In poche parole, ci ha raccontato l’arte di arrangiarsi (e di dover subire) mentre latitano regole e senso civico.

Arte appunto, che poi si è tradotta in cinema, teatro, libri, tutti nati dall’intento di divertire il pubblico dicendo cose di una malinconia struggente sul destino comune di quello stesso pubblico, spettatore e vittima insieme. Ma anche l’artista più fantasioso trova, prima o dopo, momenti di stanchezza e di crisi creativa, inevitabilmente.

E non sarebbe giusto rimproverarglieli nel giorno tristissimo in cui l’artista ci lascia e rivediamo così, in un lampo, il film della sua carriera.

Dando l’addio a Paolo Villaggio non possiamo però scordare quella parentesi di incomprensione e anche di incredulità, tra lui e i friulani, collegate a un paio di frasi contenute in un suo libro edito da Mondadori nell’ottobre del 2011.

Si intitolava, con tipica prosa fantozziana, “Mi dichi. Prontuario comico della lingua italiana”. Voleva essere nelle intenzioni dell’autore un breve viaggio tra usi e costumi delle varie regioni per ricordarne aspetti buffi e caratteriali.

Un gioco ardito, anche perché non era facile essere sorprendenti e un po’ inediti in una materia già molto affrontata (passando, tanto per citare illustri esempi letterari, dai “Maledetti toscani” di Malaparte al “Libera nos a malo” di Meneghello).

E invece Villaggio ci andò giù senza esitazioni dedicando il ritratto più aspro ai friulani, lasciandoli di stucco, compresi quelli (cioè quasi tutti) da decenni non si perdevano un film girato dalle parti di Fantozzi e Fracchia. Annichilirono quelle parole e restarono a bocca aperta anche i più ironici e i meno sensibili alle descrizioni di chi ci propone come gente dedita al tajut “hasta siempre”.

Ma ecco come “Mi dichi” ci rappresentava: «I friulani, che per motivi alcolici non sono mai riusciti a esprimersi in italiano, parlano ancora una lingua fossile impressionante, hanno un alito come se al mattino avessero bevuto una tazza di merda e l’abitudine di ruttare violentemente...».

Roba davvero per palati forti. La vicenda, nello scalpore ampliato dall’eco del web, non lasciò silenziosa la politica.

Renzo Tondo, allora governatore della Regione, intervenne in prima persona convocando la sua giunta e minacciando la querela nei confronti del comico-scrittore mentre la Filologica fece presagire passi analoghi. Una nota di fuoco giunse dalla Provincia di Udine e da altri esponenti politici: insomma, ne nacque un vero caso come si dice in queste situazioni.

Del tutto sorpreso dalla inattesa reazione (e ciò fu indice di buona fede), Paolo Villaggio chiamò Tondo rimangiandosi quelle righe ingiuste, chiedendo scusa e ricordando l’ottimo rapporto con il pubblico friulano, saggiato anche durante le tournée teatrali. Insomma, venne messa in fretta una pezza e dal libro tolta la frase anti-friulani.

L’incidente servì a far riflettere su un paio di cosette. Prima: la protesta vibrante non fu indice di scarsa autoironia, ma di un sentirsi offesi come era inevitabile e legittimo.

Quante volte libri o film ci hanno raccontato in un certo modo. Basta ricordare “Zoran, il mio nipote scemo” in cui il regista Matteo Oleotto mette in pista il Paolo Bressan interpretato da Giuseppe Battiston, uno che non va avanti ad aranciate. Ma mai ci si è inalberati così.

Allora (seconda cosa) va detto che maneggiare la satira è complicatissimo perché ci si muove sulla lama del rasoio: suscitare il sorriso accennando a scomode verità è un’arte sottile e raffinata. Solo se si è ispirati e in forma è possibile riuscirci, altrimenti meglio lasciar stare.

L’anno dopo, nel 2012, Villaggio vinse per le sue opere letterarie (non solo “Mi dichi”, bensì il complesso di libri apparsi dal 1971) il premio intitolato a Piero Chiara e allora possiamo citare proprio il grande scrittore di Luino che narrò Cividale e il Friuli nel bellissimo romanzo “Vedrò Singapore” e poi in un racconto intitolato “La bellezza del vivere”.

Anche in quelle pagine si beveva il tajut, si tirava tardi la notte, si giocava al biliardo al caffè Longobardo, si parlava “l’impressionante” friulano, ma al mattino nessuno era impresentabile e con alito letale. Il motivo è che Chiara, da giovane cancelliere di pretura, aveva vissuto a Cividale. Dunque, è giusto fare satira e ironia, ma è meglio cimentarsi su argomenti che si conoscono bene.

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