Parlano i genitori: della vittima: «È una vera vergogna»

Giuseppe Pedron esce dall’aula e scuote la testa. «Sono giustamente insoddisfatto. E’ una vergogna. E io non voglio fare commenti». Il padre di Annalaura sbatte la porta.

TRIESTE. Giuseppe Pedron esce dall’aula e scuote la testa. «Sono giustamente insoddisfatto. E’ una vergogna. E io non voglio fare commenti». Il padre di Annalaura sbatte la porta. «Andiamo, andiamo a casa. Qui non c’è più niente da fare».

Gli occhi grandi Laura Zamuner, la madre di Annalaura, guardano nel vuoto. Sembra non esserci più dolore, solo disperazione. D’ abbandonata su una sedia, maglia e pantaloni sui toni del marrone. Parla a bassa voce, quasi sibila: «Non tollero, non tollero tutto questo. Quell’uomo non si è mai presentato, non è mai venuto qui a dire: “Sono innocente”. Se non l’ha mai fatto, vuol dire che non ha potuto farlo... e quindi». Non finisce la frase, una pausa: Poi riprende: «Ma io non posso, non posso andare avanti così». Accanto a lei c’è Silvia, la figlia minore. I suoi occhi neri e grandi sembrano quelli di Annalaura. la sua è sofferenza quasi muta. Fuma, sorride, parla pochissimo. Aspetta, come tutti, la convocazione dei giudici per la sentenza.

Un’altra giornata lunga. Primo appuntamento alle 13.30, il secondo due ore dopo. Niente, si continua. Alle 16.30 i giudici comunicano di aver bisogno di altro tempo. E’ lunga, la discussione va avanti. Alle 17.30, la convocazione. Tutti si preparano, tutti entrano nell’aula. L’udienza è a porte chiuse, possono assistere solo le parti e i parenti. Nel corridoio tagliato dalle lame di sole c’è un silenzio di tomba. Suona la campana, i giudici leggono la sentenza. «In nome del popolo italiano... visti gli articoli... non doversi procedere perchè il reato è prescritto....».

La porta si spalanca su un altro, un nuovo dolore. Escono i genitori di Annalaura, esce la sorella. Non esce l’imputato: ieri non era in aula, così come tutte le altre volte. Non ha mai preso la parte al processo.

Esce il pm, Chiara De Grassi: «L’appello? Tecnicamente e possibile. Vedremo...».

Per ultime escono gli avvocati di David Rosset. Sono due donne piccole e battagliere: Esmeralda Di Risio e Filomena Acerno. Nel piazzale del Palazzo di giustizia cercano una sigaretta e parlano. Prima Esmeralda Di Risio: «Sia chiaro: la difesa non è soddisfatta. Dopo tante udienze ci aspettavamo un giudizio, come dire?, più definitivo. Adesso abbiamo 90 giorni per pensare, leggeremo le motivazioni e su quella base faremo appello. Questo è un processo da rifare».

Tocca Filomena Acierno: «Sì, siamo scontenti tutti. E sapete perchè? David Rosset è stato iscritto nel registro degli indagati il 20 marzo del 2008. Ma il reato di cui è stato accusato era già prescritto un mese prima, nel febbraio. A vent’anni esatti dall’omicidio perchè una pronuncia della Cassazione fissa in quel lasso di tempo la prescrizione per l’omicidio compiuto dal minorenne. Per indagarlo, gli hanno contestato le aggravanti che nel fascicolo originario, quello contro ignoti, non c’erano». E questo sembra un’altra, potente motivazione (in attesa di quelle che forniranno i giudici) che porta verso l’appello. (m.ga.)

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