Patrice Leconte all’Amidei: «Il cinema è ladro di natura» FOTO
GORIZIA. Due giri di chiave alla porta dell’ambulatorio e passo veloce verso il cinema. Prima, però, il dottor Leconte faceva un salto a casa per raccogliere il figlioletto Patrice. Vedi un film oggi, vedi un film domani e il bimbo comincia a credere che quella celluloide potrebbe fare al caso suo. E appena agguanta i quindici il ragazzo Patrice Leconte impugna una cinepresa e il cinematografo se lo fa da sè.
Ce l’abbiamo di fronte, faccia scavata, magrissimo, camicia di lino, occhialetti da intellettuale. A Gorizia non c’era mai stato. «Il posto è tranquillo. Era giovedì quando sono arrivato e pareva domenica».
L’Amidei lo inseguiva da quel dì e se i boss del premio avessero scoperto che bastava inviargli una banalissima mail per strappargli un okey, si sarebbero svegliati ben prima. Mica tutte le star - e lui lo è - mantengono la carineria di quando nessuno li badava. Il premio all’Opera d’Autore è suo da ieri pomeriggio e il festival (fino a giovedì 25 con un programma succoso) mostra a mitraglia i cult del francese.
Tanto per ripassare alcune delle cinquanta opere della collection: La bottega dei suicidi (l’ultimo, in realtà), Il marito della parrucchiera, L’uomo del treno, Ridicule, Il mio migliore amico, Tandem (da dove iniziò a salire). Il regista riuscirà pure a fare un saltino al Visionario di Udine, stasera alle 20.30. Al ritorno da mare...
- In tanti, forse tutti, osservano l’evoluzione filmica attraverso il monitor. L’occhio sull’obiettivo non ce lo posa nessuno. A parte Patrice Leconte.
«Un desiderio trattenuto, finché con Tandem mi sono deciso. Ho detto basta, adesso faccio io. Ho lavorato con cameramen bravissimi, ma preferisco così. Non sempre succedeva quel che avevo previsto. E da allora lo sguardo sulla vita è stato solamente il mio».
- Coniamo sul momento un aforisma sul cinema? Conoscendo il piglio dell’uomo arguto, non ci deluderà.
«È un ladro, ruba a piene mani alle altri arti. Non per nulla è la settima. Il cinema è pittura, architettura, musica, poesia, danza, scultura. Arraffa quanto serve e assembla».
- Respirando sceneggiature qui a Gorizia vien facile ragionare sulla scrittura. Intercettiamo molti remake. Non è che la vena si sta esaurendo?
«Non sarei così pessimista. Finché il mondo gira ci sarà sempre qualcosa da raccontare. Con poche note si scrivono stupende canzoni. Vedremo da oggi al futuro ancora migliaia di pellicole sull’amore e ognuna sarà sempre diversa dall’altra».
- Qual è il suo magazzino delle idee, Leconte?
«Ne ho più d’uno. Un libro, tanto per cominciare. Gli amici, gli stessi attori. Da un incontro. Le dico. Un dopo cena faccio due chiacchiere con Johnny Hallyday. Mentre ci stiamo per salutare lui se ne viene fuori con: “Guarda che non perdo la speranza di fare un film con te”. Vado a casa e l’invito mi gira per la testa. Ecco, è di quella sera la prima pietra de L’uomo del treno».
- Che fetta della sua vita le sottrae il cinema?
«Effettivamente 24 ore su 24. Anche adesso. Siamo io, lei e la gentile signorina che ci aiuta con la traduzione simultanea. È un pensiero in automatico. Mentre parlo vedo la scena. Gli occhi vanno da soli. Quando cammino, quando guido, quando ascolto una conversazione, sempre. Cerco solamente di non farlo pesare alla mia famiglia. Alle volte faccio finta di non occuparmi del mestiere, mentre invece ci filo sopra».
- In Francia l’industria cinematografica è alla frutta come in Italia?
«Per fortuna no. La nostra produzione è di oltre duecento film l’anno contro i settanta vostri, dei quali solamente cinquanta arrivano in sala. Confidiamo su parecchia gente disposta a crederci».
- Al contrario dei governi, che lavorano per distruggerci.
«Una disperazione, certo. Ci vogliono con la testa bassa. E con scarse speranze in saccoccia».
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