Pelizzo non si dimette, i soci sono con lui
CIVIDALE. Lorenzo Pelizzo resta al suo posto. È lui l’indiscusso presidente della Banca Popolare di Cividale. L’applauso che ieri l’ha “confermato” numero uno dell’istituto è molto più di un gesto di attaccamento al concittadino: è la prova di come il territorio voglia tenersi stretta l’ultima Popolare, l’ultimo istituto di credito – escluse le Bcc – del Friuli Venezia Giulia. «È importante che una regione autonoma riesca ad avere delle banche autonome» è stato ribadito ieri, in assemblea, e in quell’applauso c’è proprio questo messaggio: la voglia di autonomia.
L’affluenza al centro San Francesco di Cividale è da record, la stessa del Duemila, quando all’ordine del giorno c’era l’ingresso di Deutsche Bank: 1.144 presenti per 1.521 voti, 258 dei 600 dipendenti. Stavolta, a richiamare i soci c’è l’inchiesta della procura di Udine per quattro ipotesi di reato di estorsione a carico del direttore generale Luciano Di Bernardo (dimessosi), del vicedirettore (sospeso) Gianni Cibin e del presidente del Gruppo, Lorenzo Pelizzo. Quando Pelizzo apre i lavori ci sono ancora un centinaio di soci in coda; fortunatamente l’impianto di amplificazione consente a tutti di sentire: «Le indagini sono in corso – attacca il presidente – e per rispetto non ritengo opportuno parlarne in questa sede. Comunque dichiaro la mia assoluta innocenza: le accuse nei miei confronti sono infondate. Ma quello che mi preme dire qui, oggi, è che la banca ne uscirà indenne, assolutamente indenne». L’obiettivo di Pelizzo è quello di non trasformare l’assemblea in una stanza di tribunale. «Non accetto i processi in piazza».
Il proposito, però, dura un paio d’ore: il tempo di ascoltare due dei sedici interventi, quello di Pierluigi Comelli e quello di Rinaldo Bosco. Entrambi, con toni diversi, chiedono le dimissioni di Lorenzo Pelizzo. «In attesa che la magistratura faccia chiarezza è giusto che il presidente si faccia da parte. Le accuse sono gravi e Pelizzo non può non tenerne conto anche perchè nel suo ruolo non poteva non sapere cosa stava accadendo in banca».
Tirato per la giacchetta, a quel punto, Lorenzo Pelizzo spiega la propria tesi difensiva. «Nella mia vita ho avuto la possibilità di incontrare Pirelli Marti. Questa persona avrebbe dichiarato che mi sarei approfittato di lui. Che, sotto ricatto, gli avrei venduto un immobile, di mia moglie, per una valore doppio rispetto alla stima. Bene: ci sono tre perizie, una mia, una sua e una della società di leasing di un gruppo nazionale, quindi esterna alla Popolare di Cividale (che è poi quella che ha acquistato l’immobile, ndr) che confermano il valore di vendita. È stato anche detto – ha continuato Pelizzo – che si tratta di une vecchio rudere: è un falso. Se volete vi faccio vedere le foto di quell’immobile dieci anni fa. Insomma, un serie di falsità facilmente dimostrabili. Per questo sono sereno e per questo non mi sento di dare le dimissioni. Un’altra cosa: lasciamo alla magistratura il tempo di fare il suo corso, lo stesso alla stampa, ma mi riservo di chiedere il conto quando questa vicenda sarà finita».
Pelizzo ormai è un fiume in piena. «Ho sempre detto che rassegnerò le dimissioni soltanto in tre casi: che non ci sia più con la testa; che provveda Dio e se i soci non mi rinnovassero la fiducia confermata per quindici anni. Visto il momento non mi resta che chiedervi un voto: se volete che mi ne vada alzate la mano». Dal salone si alza un urlo: «Resta», quasi tutti si alzano in piedi e parte l’applauso. Pelizzo resta presidente e con la voce rotta dalla commozione e dalla tensione conclude: «A questo punto aggiungo altre due condizioni alle mie dimissioni: che la magistratura riscontri anche una minima colpa o che la Banca d’Italia riscontri gli estremi».
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