Per capire quanto durerà l'emergenza dobbiamo tornare alle origini

Una domanda ricorre quotidianamente: quando finirà la costrizione dovuta al diffondersi del Coronavirus? Ma la domanda vera è un’altra: non quando terminerà, ma come saremo quando usciremo da questo limbo. Perché molti fattori fanno dire che non sarà come prima. Sono trascorsi 12 anni dalla crisi del 2008 che ha portato a un radicale cambiamento.
Non avevamo ancora trovato un nuovo equilibrio e ne capita un’altra, per molti versi ancora più grave. Per capire come saremo dopo è necessario prendere sul serio quanto Erri De Luca scrisse in un suo libro (E disse): “il futuro del fiume è alla sorgente”.
Per affrontare il cambiamento, dobbiamo capire come siamo arrivati all’appuntamento. Nel 2008 il Nordest era giunto sull’onda dei successi maturati nell’ultimo decennio del ‘900, quand’era definito la locomotiva d’Italia. Orgogliosi di aver ottenuti, in brevissimo tempo, traguardi impensabili. Un’economia studiata dal mondo.
Ma il primo decennio del nuovo secolo aveva messo in evidenza alcune difficoltà strutturali. E progressivamente le performance del Nordest si erano allineate a quelle nazionali. Sempre leggermente meglio, ma uniformate.
Poi arriva la crisi del 2008/09. Dal 2009 a oggi, fra alti e bassi, si sono cercati nuovi equilibri e ripartenze. Non sono mancate una molteplicità di esperienze significative nel campo imprenditoriale, culturale, così come nel volontariato, che hanno provato a ricostruire un ordito sociale ed economico.
Ma, nello stesso tempo, si sono aggravati altri fenomeni: siamo entrati nell’inverno demografico, perdiamo popolazione, quote di giovani se ne vanno a cercare altrove miglior fortuna. Attraiamo sempre meno giovani nelle università.
Le performance economiche, seppur positive, ci vedono però arretrare rispetto alla Lombardia e all’Emilia Romagna. Nell’ultimo Regional Innovation Scoreboard dell’Ue (2019) sulla capacità di innovare dei sistemi territoriali (non solo delle imprese), su 238 regioni europee il Veneto è al 123° posto (in calo), preceduto da Lombardia (118), Emilia Romagna (113) e Friuli Venezia Giulia (102), quest’ultime in crescita e al top fra le italiane, ma comunque di poco superiori a metà classifica. Dunque, abbiamo esiti leggermente positivi, ma perdiamo velocità rispetto ad altri territori.
A ciò, dobbiamo aggiungere la crisi delle due banche popolari, lo scandalo del Mose e la caduta di un pezzo di classe politica, fino alla più recente guerra sulle società di servizi venete.
Eventi sui quali la classe dirigente nordestina (e la politica ne è solo una minima parte) non ha espresso la benché minima autocritica collettiva. E, all’insegna della tradizione, meglio mettere la polvere sotto il tappeto e attribuire la colpa a singoli capri espiatori.
Così, arriviamo a questa situazione eccezionale ulteriormente debilitati. Senza che, nell’ultimo decennio, le classi dirigenti del Nordest abbiano approntate scelte strategiche radicali per una nuova progettazione dei meccanismi di funzionamento del sistema sociale ed economico.
Certo, il contesto nazionale e internazionale non favoriscono. Viviamo in un paese irrigidito dal debito pubblico, che limita le disponibilità economiche. Ma il problema di fondo è altro e ben più radicale. E va oltre alla necessità di sostenere i fattori della competitività del sistema produttivo.
La questione di fondo riguarda la logica delle azioni delle classi dirigenti tutte, nessuna esclusa, che anche dopo il 2008 hanno continuato a funzionare seguendo le traiettorie degli anni ’90: la mobilitazione individualistica. All’insegna del “chi fa da sé, fa per tre”.
Se ciò poteva funzionare in una fase di crescita economica, nel contesto attuale è un limite. Perché l’eccesso di mobilitazione individualistica genera frazionamento, perdita di coesione e di peso politico (in senso generale). Lo specchio di tutto ciò è fornito esattamente da altre realtà territoriali che hanno saputo mettere a fattor comune progetti di sviluppo, come le vicine Lombardia ed Emilia Romagna.
Forse che lì non ci siano individualismi? Certo che sì, ma lì la comprensione che le condizioni mutate richiedono sinergie e non fughe solitarie, sta producendo i suoi frutti.
Allora il come saremo quando terminerà questa nuova crisi dipenderà sicuramente da un sussulto d’orgoglio, dalla resilienza degli imprenditori, come ha ricordato Baban sul Corriere del Veneto, e dalla volontà evocata dal direttore dei giornali veneti Paolo Possamai.
Ma oltre a ciò, serve un cambiamento nel paradigma dell’azione che prenda le mosse dalla buono realizzato, ma anche dalla consapevolezza dei limiti. Si cambia solo se si prende coscienza degli errori compiuti. L’obiettivo è di passare da una “mobilitazione individualistica” a una “mobilitazione coo-petitiva”. Dal “testa bassa e lavorare” al “testa alta e cooperare”.
Dove cooperazione e competizione giocano a sostenersi reciprocamente all’interno di una visione con-divisa. Consapevolezza, capacità (auto)critica e di sintesi, visione del futuro e coraggio sono gli antidoti per sconfiggere il virus culturale che avvolge il Nordest.
Una classe dirigente che operi una discontinuità con le logiche precedenti e si co-ordini per costruire nuove progettualità non manca. Deve solo trovare la forza di emergere.
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto