Pilosio: «Sequestrate i beni dell’ex manager». Ma il giudice lo scagiona

UDINE. Volevano sigillargli il patrimonio, a garanzia del credito risarcitorio da far valere nella futura azione di responsabilità. E invece, alla richiesta di sequestro conservativo che i legali della “Pilosio spa” di Feletto Umberto avevano presentato sui beni del proprio ex amministratore delegato, Dario Roustayan, per un valore complessivo di circa 1,5 milioni di euro, il tribunale di Trieste ha risposto picche.
E lo ha fatto con un’ordinanza che, nel motivare il rigetto del ricorso, scardina quel poco dell’impianto accusatorio che era stato prodotto in atti. Un successo per la difesa, che adesso, in attesa di conoscere gli sviluppi del procedimento penale avviato dalla Procura di Udine, dispone di una carta in più da giocare in sede civile, nella causa di lavoro seguita all’impugnazione del licenziamento.
Il caso è quello scoppiato lo scorso marzo con la notifica dell’informazione di garanzia all’uomo che, nel 2010, era riuscito nell’impresa di salvare l’azienda friulana, un colosso nel campo delle costruzioni industriali, dalle secche del crac.
Partita da un’«attività informativa della Guardia di finanza», l’inchiesta aveva subito puntato la lente sull’allora ceo - il siluramento era scattato a fine gennaio -, ipotizzando a suo carico il reato di corruzione internazionale continuata, finalizzata a procurare alla Pilosio appalti all’estero.
E, per l’esattezza, in Arabia Saudita, Algeria e Canada. Tangenti, in cambio dell’affidamento di lavori (tra il 2011 e il 2015) per diverse decine di milioni di euro, insomma. In virtù del decreto legislativo n.231 del 2001, che estende la responsabilità penale all’azienda per i reati commessi da propri amministratori o dipendenti, a finire sul registro degli indagati è stata anche la stessa Pilosio.
Secondo il giudice della sezione specializzata in materia d’impresa del tribunale di Trieste, Daniele Venier, tale contestazione «è, allo stato, sfornita di conforto probatorio e, ancor prima, indiziario», rappresentando «la mera tesi accusatoria svolta nel corso delle indagini, non sottoposta ancora al vaglio del giudice, del tutto generica e a sostegno della quale non risulta allegato alcun elemento di riscontro desumibile dalle indagini, essendo stato depositato il solo verbale di perquisizione».
La responsabilità di Roustayan per i fatti di corruzione internazionale a lui ascritti, quindi, «non risulta, all’attualità, predicabile, neppure sotto il più circoscritto profilo del fumus boni juris».
Da qui, l’esclusione della voce risarcitoria relativa ai due terzi della somma indicata dall’azienda. Il resto, pari a circa mezzo milione di euro, si riferisce a una seconda vicenda, a sua volta oggetto d’indagine, relativa a una commessa per la fornitura di ponteggi che Pilosio ricevette dalla società messicana Ethylene XXI Contractors Sapi De Cv.
Nel condurre in porto l’operazione, Roustayan avrebbe peccato di conflitto d’interessi. Invece di essere venduta al committente, con cui era stato concordato il prezzo di 7.710.053,60 dollari canadesi, la merce fu ceduta alla canadese Alberta Scaffolding Systems Inc, di cui sua moglie era socia al 50 per cento, per il minore importo di 7.041.542,65 dollari canadesi, e da questa rivenduta infine alla società messicana al prezzo originario, con conseguente ricavo per l’intermediaria di un margine di 668.510,95 dollari canadesi (pari a circa 450 mila euro).
Soldi che, in tesi accusatoria, sarebbero stati sottratti all’utile di Pilosio e che l’ex amministratore ha invece spiegato come una sorta di conditio sine qua non per aggiudicarsi l’appalto. Come confermato dal legale rappresentante della Alberta Scaffolding, Pilosio non poteva fornire direttamente Ethylene, ma doveva fare transitare la merce attraverso un prestanome canadese.
La giustificazione, per il giudice Venier, «non appare connotata da palese infondatezza o pretestuosità». E questo basta a demolire anche l’altro filone su cui la società friulana aveva basato il ricorso.
«L’ordinanza, che peraltro non è più nemmeno oggetto d’impugnazione – ha commentato l’avvocato Luca Ponti, che difende Roustayan insieme al collega Paolo Panella – è un precedente significativo in sede sia penale, sia civile. Entrando nel merito della vicenda, il giudice ha di fatto scagionato il nostro assistito dalle contestazioni penali e creato le premesse per affrontare positivamente la causa di lavoro sull’illegittimità del licenziamento».
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