Pordenone contro la mafia, la testimonianza del Questore: «Hanno sparato alla mia casa e distrutto l’auto di mia madre»
La teca con i resti dell’auto della scorta di Falcone ha fatto tappa in città. Presente Tina Montinaro, moglie di una vittima

«Il 23 maggio 1992 la mafia non ha vinto. La Quarto Savona Quindici (sigla radio della vettura della questura di Palermo nella quale viaggiava la scorta del magistrato Giovanni Falcone a Capaci) continua a correre, così come la speranza e i valori per i quali si sono sempre battuti il dottor Falcone e gli uomini che lo proteggevano, guidati da mio marito».
Tina Montinaro – vedova del caposcorta Antonio Montinaro, morto insieme al giudice, alla moglie Francesca Morvillo, magistrata, e agli agenti Vito Schifani e Rocco Dicillo – non si è arresa al dolore. Ha raccolto il coraggio che il marito le ha lasciato in eredità e ha continuato a far viaggiare i resti della Fiat Croma per continuare la missione intrapresa da Falcone e dalla scorta: lottare contro la mafia in Italia e sensibilizzare le nuove generazioni.
Ieri mattina, la Quarto Savona Quindici ha fatto tappa in piazza della Motta, accolta dalle istituzioni e dagli studenti degli istituti locali, nell’ambito del progetto “Dal sangue versato al sangue donato”, promosso dall’Associazione donatori volontari – polizia di Stato, presieduta da Claudio Saltari, e dell’associazione Quarto Savona Quindici, presieduta dalla stessa Tina Montinaro. Oltre a promuovere la lotta alla mafia, l’iniziativa mira a sensibilizzare sulla donazione del sangue.
«Mio marito ha dato la vita per combattere la mafia, consapevole di quanto stava facendo – ha sottolineato – Lo stesso si può dire del dono. È giusto donare il proprio sangue in quanto consapevoli di fare un’azione che salverà la vita di qualcuno che si trova in difficoltà». Dopo lo svelamento della teca, gli studenti hanno ascoltato all’ex Convento San Francesco le parole della signora Montinaro e del presidente Saltari. L’incontro è stato moderato dal caporedattore del Messaggero Veneto, Antonio Bacci. Non sono mancate le domande da parte degli studenti.
Come ha raccontato Tina Montinaro, ciò che ha spinto Antonio, all’epoca 24enne, a scegliere di sua spontanea volontà di ricoprire una carica tanto importante e rischiosa «è stato credere sopra ogni cosa nello Stato e nel dottor Falcone. Ha dato la vita per questo, consapevole dei rischi a cui andava in contro».
Grazie alla forza di volontà e al coraggio della donna, a distanza di 33 anni il ricordo di Falcone e della scorta continua a vivere nell’animo di tutti. «La Savona Quindici è la tomba di Antonio – ha detto – E non rappresenta solo i resti dell’auto esplosa, della quale ho ancora impresse nella memoria le immagine subito dopo l’incidente, ma anche la speranza che hanno lasciato mio marito, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Il ricordo dei padri di tre famiglie, che hanno dato la vita nella lotta contro la mafia». Oggi, la mafia così come la società civile è cambiata.
«Non possiamo permetterci nessun passo indietro – ha concluso – La mafia è diversa, si è evoluta. Adesso i figli dei mafiosi studiano nelle più prestigiose università e hanno accesso ai luoghi di potere». L’appello ai giovani, è arrivato dal presidente Saltari. «La platea di donatori sta diventando sempre più anziana – ha spiegato – È fondamentale il ricambio generazionale e il ruolo dei giovani, quindi, diventa fondamentale». Portando qualche dato, Saltari ha spiegato che in Italia, ogni giorno, circa 1.800 persone ricevono una sacca di sangue. «Donare, infine – ha aggiunto – promuove la legalità e avvicina i giovani a comportamenti e stili di vita sani».
Il racconto del questore
La strage di Capaci, oltre ad aver gettato nel dolore l’Italia intera, ha toccato nel profondo molti uomini e donne che prestavano servizio nella polizia di Stato, che hanno deciso di scendere in campo nella lotta alla mafia. Tra questi anche l’attuale questore di Pordenone Giuseppe Solimene che, ha voluto condividere la sua esperienza ai ragazzi delle scuole.
Solimene ha ripercorso la storia, tornando al 23 maggio del 1992, giorno della strage di Capaci. In quell’anno era funzionario di polizia. «Ero a Foggia – ha raccontato – e rimasi molto scosso dalla tragedia. Lavoravo alla scuola di polizia, mi occupavo di formazione. Dopo la strage è scattato qualcosa in me, che mi ha portato a intraprendere la via della polizia giudiziaria, per vent’anni». Solimene era impegnato nella lotta alla Quarta Mafia. «Fortunatamente sono qui a raccontarlo – ha aggiunto – Tuttavia, le minacce non sono mancate. I mafiosi hanno fatto esplodere la macchina di mia madre e hanno sparato colpi d’arma da fuoco contro la casa in cui abitavo. Questi episodi non hanno avuto la meglio, anzi, mi hanno fortificato e fatto capire un concetto molto importante: che la legge è superiore a tutto e tutti».
Per il questore, la teca contenente i resti della macchina sulla quale viaggiavano il magistrato e la sua scorta è un esempio tangibile del sacrificio e della lotta alla mafia. «Osservandola – ha concluso – è possibile comprendere il valore del sacrificio di tanti uomini che hanno dato la vita per ripristinare la legalità in Italia, per far valere la legge sopra la mafia. La mafia è radicata ovunque, anche a scuola, dove assume significati diversi e si traduce nella parola “bulli”».
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