Pordenone, morto don Romanin il prete del terremoto e del duomo cittadino

Monsignor Giuseppe Romanin, per 21 anni parroco del duomo San Marco, per 33 in tutto a Pordenone e prima per 12 a Maniago, è morto ieri alle 3, nella casa del clero di San Vito al Tagliamento dove risiedeva dal 2014. I funerali saranno celebrati martedì alle 15.30 nella chiesa concattedrale San Marco dove il feretro arriverà alle 9.30; il rosario, domani alle 19, in San Marco e alle 20.30 nella chiesa di Villa d’Arco. La sepoltura avverrà nel cimitero di Torre. Lascia tre fratelli – Ivano, Luigi e Alfeo – e una sorella, suor Francesca.
Monsignor Giuseppe Romanin era nato a Villa d’Arco, la sera del 29 novembre 1928. «Non si aveva nemmeno la luce, 440 parenti emigrarono in Australia. Tale periodo coincideva con lo sviluppo industriale di Pordenone. Venivano benedette case e stalle, perché solo queste erano calde e potevano ospitare le persone, durante la stagione fredda.
Li imparai che cos’è la civiltà contadina che contiene tutti i più bei valori che formano un uomo. Quando ho bisogno di un aiuto personale vado ancora in cerca di mia mamma e mio papà».
Il 5 ottobre 1942, l’ingresso in seminario, in seconda media; la scuola di teologia con Pietro Nonis, che sarebbe divenuto vescovo continuando a mantenere un forte legame d’amicizia col compagno di classe: «Mi chiamava “datore di lavoro” perché prima di essere eletto presule celebrava in duomo San Marco tre messe ogni fine settimana, tradizione che mantenne sino a poco prima di morire».
L’ordinazione, nella chiesa di Cordenons, il 28 giugno 1953. Dal 22 agosto monsignor Giuseppe Romanin fu cooperatore per tre anni di monsignor Luigi Peressutti, assieme al compagno di classe don Franco Zanus. In particolare aveva il compito di curare la nuova parrocchia, ancora in fieri, di Borgomeduna. «Era una zona di comunisti ferventi – raccontava –. Quando predicavo, tenevo d’occhio il venerando Giacomo Monticco: se teneva alti i suoi lunghi baffi capivo che la cosa gli interessava, quando li abbassava intuivo che era meglio concludere».
Abilitato a guidare l’auto (erano poche e vietate ai preti) nel 1956, il 5 agosto a bordo di una Fiat 1700 fece la prima corsa con l’allora vescovo Vittorio De Zanche da Pordenone all’episcopio di Portogruaro. Cominciò così l’esperienza, 16 anni, di suo segretario. Grazie a questo incarico divenne l’unico sacerdote della diocesi a partecipare al Concilio Vaticano II, dai preparativi alla conclusione. De Zanche era padre conciliare. «In auto con una Lettera 22 Olivetti o in sala stampa – raccontava – scrivevo il diario quotidiano che poi depositai, 70 fogli dattiloscritti, negli archivi di Curia».
Direttore dell’ufficio catechistico, vicario episcopale per la vita consacrata, numerosi i contatti con il padre della Provincia di Pordenone e imprenditore per antonomasia, Lino Zanussi: «Più volte mi chiese di cercare operai, c’era molta offerta di lavoro. Mi toccò, purtroppo, anche il compito di predisporre, quale segretario del vescovo, i suoi funerali».
Nel corso del ministero ebbe modo di incontrare alcuni pontefici. «Paolo VI, Papa Luciani (sono stati 33 giorni importantissimi, ha fatto riforme che non sarebbe stato possibile pretendere da altri, ha rinunciato a molti privilegi, era tra coloro che voleva una chiesa rinnovata, ma anche salda), Giovanni Paolo II, che accolsi in duomo da parroco, Ratzinger da cardinale, mentre passeggiava in zona porta Sant’Anna, a Roma. Bergoglio, due anni prima dell’elezione, partecipò alla messa di ordinazione di mio cugino vescovo Juan Carlos Romanin a Rio Gallegos, in Argentina».
La sera dell’8 aprile 1972 assume la guida della parrocchia di Maniago, sino a novembre 1984. «Vissi il tempo del terremoto, in una roulotte in piazza. Ricordo le celebrazioni per il millenario della Chiesa, il 12 gennaio 1981, avendo scoperto un documento che lo attestava». Nella città dei coltelli celebrò 1.057 battesimi, 352 matrimoni e 827 funerali.
Il 18 novembre 1984 è parroco di San Marco, in città, dove arriva con la sua Bianchina. «Cominciai con la sorpresa della banda di Maniago (era molto appassionato di musica classica, nonché scrittore: ha firmato otto libri, di cui alcuni di storia e arte, ndr) e mi congedai col concerto dei cori di Pordenone». Con l’alluvione del 2002 rivisse i tempi drammatici del terremoto: «Vedendo la chiesa sommersa come in passato trattenni con difficoltà le lacrime».
Promosse i restauri dell’antico campanile e rinnovò le chiese del Cristo e della Santissima; fu testimone diretto della visita di Giovanni Paolo II in concattedrale il 30 aprile 1992 e del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, il 25 febbraio 2005, che ospitò in canonica per l’incontro personale col vescovo Ovidio Poletto. In città ha celebrato 574 battesimi, 591 matrimoni e 616 funerali.
Domenica 25 settembre 2005 conclude il ministero in parrocchia: «Ho terminato in serenitate spiritus». Dallo stesso giorno si trasferisce, come rettore, nella vicina chiesa del Cristo (dove il 3 febbraio 2006 celebra messa alla presenza di Giulio Andreotti), poco tempo prima lasciata definitivamente dai frati francescani. Vi resterà sino al 7 settembre 2014 quando, per motivi di salute, si ritira alla casa del clero di San Vito al Tagliamento.
Le ultime uscite pubbliche sono state il 4 marzo a Maniago, dove ha ricevuto la cittadinanza onoraria e il 13 aprile alla messa del Crisma col vescovo e il clero diocesano, in duomo San Marco, ormai in sedia a rotelle.
Il 13 dicembre 2015, nell’intervista che aveva rilasciato al Messaggero Veneto in occasione dell’apertura del giubileo, concluse con parole che hanno il sapore del testamento spirituale: «Sono stato un prete fortunato, perché ho vissuto tempi bellissimi della Chiesa. Col travaglio pre e post Concilio. Ora, anche questo tempo è un dono bellissimo. Ho più tempo per me, per pregare, scrivere, meditare e correggere eventuali errori del passato.
L’ultimo capitolo del libro si intitola “Octava dies”, l’arrivo in casa di riposo. È il tempo della Resurrezione del Signore, il tempo del gusto di vivere per recuperare un mix di tutta l’esistenza, rafforzato dalla grazia dell’anno di Giubileo. Tanto negli anni è cambiata la sensibilità pastorale e culturale, così è cambiato il modo di essere sacerdote. Da parte mia, credo di aver fatto il prete sempre con coerenza».
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