Pordenonese in Egitto per studiare la rivolta

Universitario a Oxford, Leonardo Goi segue un progetto di ricerca al Cairo. «Ho rischiato più volte la vita». Stranieri guardati con diffidenza

Pordenonese, a Oxford da un pò a seguire il corso di Studi di sviluppo Leonardo Goi è uno di quei ragazzi, quei nostri ragazzi, destinati a vivere nel mondo. Da quasi un mese è al Cairo, scelta per continuare un progetto di ricerca prima che gli eventi prendessero il sopravvento, destinazione mantenuta per vivere la Storia da dentro. Gli abbiamo chiesto il perché di una scelta così rischiosa: «Ai miei occhi il Cairo era un’entità in perenne movimento - risponde - una cosa fluida, un posto dove mi sarei potuto scontrare con le cose, raccogliere materiale sì, ma anche e soprattutto crescere. Sarei dovuto partire i primi di luglio.

E poi la storia s’è abbattuta sui miei piani, 32 milioni di persone sono scese in piazza per manifestare contro Morsi. Ai primi scoppi di violenze ho ricevuto una chiamata dal dipartimento. Ritarda. Aspetta che la situazione si riassesti. Così due settimane dopo sono su un volo Venezia-Istanbul-Cairo e quando atterro alle otto di sera la città è già al buio e il confine tra case e deserto è una linea incerta, e per tutto il tragitto aeroporto–appartamento, mentre in taxi rischio la morte una mezza dozzina di volte, penso che forse, in un certo senso lato, la mia immaginazione aveva ragione».

Ma perché al Cairo?

«Sono al Cairo per cercare di capire le nuove modalità di partecipazione alla vita politica della mia generazione, cercare di capire quale spazio i ragazzi universitari possano ricavarsi nel tessuto politico dell’Egitto che verrà. E sono finito in un mondo senza punti di riferimento, un mondo in cui devo costantemente chiarire il senso della mia presenza in una città che forse mai come ora si ritrova polarizzata in due schieramenti opposti: Fratellanza musulmana contro Esercito».

Quali sono i suoi contatti?

«Per trovare risposte parlo con ragazzi che di norma hanno la mia età, talvolta qualche anno in meno. Sono tutti scesi in piazza Tahrir, il 25 Gennaio 2011, a chiedere le dimissioni di Mubarak. Con loro parlo nei caffè, centri commerciali, ristoranti, luoghi neutri in cui parlare di politica e delle esperienze con gli scontri con uno straniero non desta troppo nell’occhio. Alla tv i telegiornali dicono che gli stranieri sono spie. Dicono che sono parte di una cospirazione contro il Paese e che se alle proteste ci sono stranieri bisogna avvertire la polizia».

Com’è la situazione in questi giorni?

«Tutti amano l’Egitto, e l’Egitto è in pericolo. Per molti il confine tra Ikhwan, la Fratellanza, e “terrorismo” è nullo. Il 26 luglio El-Sisi ha chiamato il popolo a dimostrare la propria volontà a incaricare l’Esercito a lottare contro il terrorismo e difendere il Paese. Alle prime luci dell’alba le forze armate e i manifestanti pro-Morsi si sono scontrati al sit-in della Fratellanza a Rabaa al-Adawiya, e il giorno dopo il Cairo s’è svegliata contando nuovi morti. Settanta, forse molti di più. Ma in mezzo ai due blocchi nascono movimenti che li rifiutano entrambi. Come la Terza Piazza, una protesta che si definisce contro al regime teocratico della Fratellanza e la prospettiva di una dittatura militare sotto l’esercito. Una delle voce emergenti dell’Egitto che non scende in piazza né per Morsi né per El-Sisi, e per cui ogni spargimento di sangue è haraam, vietato da Dio».

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