Potreste riconoscere la voce di Lodovico il Patriarca? Vi raccontiamo la sua notte durata sei secoli
AQUILEIA. Immaginate un uomo chiuso in una cripta, nel cuore della notte, la sua notte. Si chiama Lodovico di Teck, è l’ultimo patriarca in temporalibus di Aquileia. Sopra di lui la Basilica, carena di nave rovesciata su un mare di pesci, migliaia di tessere di mosaico colorate.
La bellezza è appena sopra la sua testa, e attorno a lui, negli affreschi umidi che può toccare. Fuori la città fondata come colonia romana nel 181 a.c. durante l’età di Augusto, divenuta capitale della Decima Regio Venetia et Histria, dorme. Al lui, il Patriarca, fanno riferimento decine di diocesi di qua e di là delle Alpi ma Lodovico è solo, nonostante la Basilica possa ospitare al suo interno migliaia di persone. Nè Pietro né altri hanno messo mai piede ad Aquileia. Marco l’Evangelista, discepolo e interprete di Pietro, Marco di Alessandria d’Egitto, Marco l’africano dalla pelle scura, Marco il terapeuta: lui sì.
Ed è lo stesso Marco che da Santo diventerà il protettore di Venezia e di un’altra basilica ricolma di mosaici dorati. Officium tenebrarum, scritto per il teatro da Angelo Floramo in occasione del secentesimo anno della caduta del Patriarcato di Aquileia, è un magnifico testo in cui da un lato, si richiama la stratificazione culturale del popolo friulano, dall’altro si riflette sul tempo e sull’uso che gli uomini e le donne fanno del tempo messo a loro disposizione. Un flusso di coscienza scritto come un poema in versi sciolti che si fa canto, invettiva, preghiera, profezia. Uno sguardo metastorico, antico e moderno che porta dentro di sé, dentro le parole piene e colte, frammenti di una terra desolata, di una Patria di frontiere, non di confini, crogiolo di popoli, sogno sospeso tra Oriente e Occidente.
Un sogno disatteso nonostante la Basilica sia pregna di segni di unione, tolleranza e rigenerazione rispetto alle diversità. Un monito a guardare al passato e a tutte le celebrazioni come a un segno vivo. Perché Aquileia è caduta in mano ai Veneziani nel 1420, cosa lo ha reso possibile?
I tempi? La fragilità delle sue istituzioni? Venezia fu come la iena che incide la vena del cervo morente. Perché abbiamo preferito che i nostri figli fossero astuti piuttosto che saggi, e le nostre figlie più belle che virtuose, da mettere sul mercato nel tempo stabilito. Non la scuola! Irridemmo il tempo dei precettori, il tempo che impone la ragionata lettura, la fatica dell’imparare, che è lenta e devota. Optammo piuttosto per la vivace bottega, il facile guadagno. La taverna ci piacque più della biblioteca, il meretricio preferimmo all’amore lasciando che così languissero in disgraziato esilio tutte le Muse.
Seicento anni. Una basilica che è ancora un libro aperto pieno di storie e insegnamenti. Una città di rovine, antica Mater inascoltata di una “Piccola patria”. Una cripta che diventa palcoscenico. Il crollo di un mondo impreparato ad affrontare cambiamenti radicali dovuti a eventi del tutto simili a una pandemia. Una lezione che viene dal teatro, che troverà presto forma in un libro da leggere, e in uno spettacolo da portare nelle piazze dopo il debutto felice, per il Festival estivo del Litorale, a Udinestate. E uno scrittore sapiente e colto che restituisce voce e mistero a Lodovico il Patriarca e alla sua notte durata sei secoli.
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