Processo Aemilia, il pentito della 'ndrangheta rivela: "Iaquinta doveva giocare, il clan ha minacciato l'Udinese"

Ci sarebbero state pressioni per far entrare in campo o cedere il giocatore ex bianconero, troppo spesso seduto in panchina. Ma la società assicura: affermazioni prive di fondamento
20060507; SPORT; CALCIO SERIE A;UDINESE-CAGLIARI; Vincenzo Iaquinta dell'Udinese in azione inseguito da Francesco Pisano del Cagliari nella 37a giornata di serie A tra Udinese e Cagliari allo stadio Friuli di Udine. Ansa Foto/Franco Debernardi
20060507; SPORT; CALCIO SERIE A;UDINESE-CAGLIARI; Vincenzo Iaquinta dell'Udinese in azione inseguito da Francesco Pisano del Cagliari nella 37a giornata di serie A tra Udinese e Cagliari allo stadio Friuli di Udine. Ansa Foto/Franco Debernardi

Aemilia, Iaquinta contro il prefetto antimafia: "Ingiusta l'esclusione dalla white list"

Il bomber Vincenzo Iaquinta faceva troppa panchina. Un fatto insopportabile anche per i capi bastone del clan ’ndranghetistico Grande Aracri, che nei verbali del nuovo pentito Salvatore Muto vengono indicati come promotori di pressioni nel 2012 verso la Juventus - subito abortite - e addirittura di minacce verso l’Udinese per farlo giocare o cedere. La risposta dell’Udinese in merito è perentoria: «Le dichiarazioni apparse sulla stampa in merito alla cessione nel 2007 del giocatore Vincenzo Iaquinta sono destituite di ogni fondamento. Udinese Calcio rigetta qualsiasi affermazione apparsa sui media che rimandi a possibili pressioni ricevute in merito alla cessione di propri giocatori».

La vicenda parte da un piccolo paese della profonda Calabria, Cutro, dove il bomber Iaquinta è l’idolo incontrastato. Campione del mondo di calcio con la Nazionale azzurra nel 2006, ha vissuto fasi alterne nella sua carriera di attaccante, passato dal Reggiolo (squadra del paesino della Bassa emiliana che ha dato i natali a Carlo Ancelotti) all’Udinese fino alla Juventus, arrivando a toccare il tetto del mondo alzando la coppa più ambita. Un compaesano che ce l’ha fatta, calciatore di razza divenuto una bandiera tanto per i cittadini onesti quanto per i capi della ’ndrangheta cutrese, che si sarebbero interessati a più riprese per raddrizzare le vicende calcistiche di Iaquinta, cercando di intervenire - o millantando di averlo fatto - con la Juventus senza risultato e addirittura usando un potenziale metodo mafioso verso l’entourage dell’Udinese nel 2012, riuscendo nell’intento - dice il pentito - di far cedere il calciatore lasciato per troppo tempo lontano dai riflettori. Aiuti ripagati con scarpini o tute del campione, recapitati dagli Iaquinta addirittura dentro un carcere.

Iaquinta in aula a Reggio Emilia usa una ciabatta a sua discolpa
PROCESSO AEMILIA DEPOSIZIONE VINCENZO IAQUINTA


Parla il pentito

Una versione sconfessata dall’Udinese, e alla quale bisogna fare la tara - soggetta infatti ad accertamenti da parte della procura antimafia di Bologna - contenuta nel verbale dell’11 novembre 2017 riempito dal nuovo collaboratore di giustizia del processo Aemilia contro la ’ndrangheta al nord. Muto è ufficialmente un muratore crotonese, da poco condannato per associazione mafiosa a 18 anni di carcere nel processo “gemello” contro la ’ndrangheta “Pesci”, celebrato a Brescia. Oltre a lavorare tra calce e mattoni, Muto ha sempre condiviso il suo tempo con Francesco Lamanna, il braccio destro dell’ormai celebre boss cutrese Nicolino Grande Aracri. Muto è un fiume in piena: registra ore e ore di dichiarazioni incalzato dai pm della Dda di Bologna Marco Mescolini e Beatrice Ronchi, squarciando il muro dell’omertà caratteristico dei sodalizi criminale calabresi. Descrive la figura di Giuseppe Iaquinta, imprenditore edile cutrese, imputato nel processo Aemilia per i reati di associazione di stampo mafioso, padre da sempre professatosi premuroso nei confronti del figlio Vincenzo, anch’egli imputato per una più defilata questione di armi nel maxi processo che conta 145 imputati che si sta celebrando a Reggio Emilia, dove si sono stabiliti da molti anni insieme a migliaia di compaesani cutresi.

Il caso juventus

Muto racconta ai pm che nel 2012, durante un incontro al nord a cui era presente con altri sodali del clan (il boss della locale cremonese Lamanna, il faccendiere Alfonso Paolini, il boss della locale di Reggio Emilia Nicolino Sarcone) questi si sarebbero detti disposti a intervenire in favore di Iaquinta, che non veniva schierato dall’allenatore (all’epoca Antonio Conte) nella Juventus. Un caso che, nonostante l’interessamento di Sarcone, rimase lettera morta secondo quanto conclude Muto davanti ai pm.

Minacce all’Udinese

Di ben altro spessore la vicenda con l’Udinese, squadra nella quale Iaquinta aveva militato dal 2000 al 2007. La storia, infatti, viene qui circostanziata dal collaboratore di giustizia. A margine del caso con la Juve, Lamanna spiegò a Muto che non si trattava del primo intervento del clan per risolvere problemi del genere a Vincenzo Iaquinta. «Avvenne quando giocava con l’Udinese» ricorda Muto. «Per un periodo Iaquinta non veniva fatto giocare né veniva ceduto - dice il pentito - Lamanna mi ha raccontato di aver saputo da Ernesto Grande Aracri (fratello del boss Nicolino e già condannato a 24 anni di carcere nel processo Kyterion, ndr) che aveva inviato suo nipote Rosario Porchia per minacciare l’entourage dell’Udinese calcio affinché facesse giocare o cedesse Vincenzo. Cosa poi effettivamente avvenuta. Iaquinta fu poi ceduto».

«Iaquinta voleva comprare la Reggiana»
PROCESSO AEMILIA.CORTE FRANCESCO MARIA CARUSO


Gli scarpini in cella

Ma il racconto di Muto non termina qui perché offre ai pm un collegamento. «Messe a posto le cose, Ernesto ha chiesto un paio di scarpe da calcio che gli Iaquinta gli hanno mandato in carcere, a Catanzaro credo, dove all’epoca doveva essere detenuto».

©RIPRODUZIONE RISERVATA
 

Argomenti:udinese calcio

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto