Quando il riscatto arriva dal lavoro
PORDENONE. Al campo profughi di Cremona, sul finire degli anni ’50, le famiglie degli esuli istriani dormivano in un unico stanzone, maschi e femmine, separati da coperte appese a una corda. Fra loro c’era anche Antonio Gelisi, che avrebbe poi fondato, qualche anno più tardi, l’azienda vitivinicola omomima a San Quirino, oggi una delle realtà più solide della doc Grave.
L’allora poco più che ventenne Antonio, però, ancora non se lo immaginava. Mentre coltivava pomodori e tabacco in un’azienda agricola, immalinconito dalla perenne nebbia della pianura padana, ripensava con nostalgia alle pietraie assolate di Umago, la sua terra natia. Dove, fra vigneti e ulivi arroccati sulle scogliere, un refolo di brezza marina veniva a scompigliargli i capelli.
A Umago aveva visto ritornare, nel 1949, suo padre Francesco Giuseppe, dopo quattro anni di prigionia nelle carceri jugoslave. Quasi non l’aveva riconosciuto in quell’uomo macilento, che arrancava sul sentiero, ridotto dagli stenti a 46 chili di peso nonostante il suo metro e ottantatré centimetri di altezza. Giuseppe aveva percorso a piedi 150 chilometri da Cocevje a Umago.
I titini l’avevano catturato il 1º maggio del 1945, perché gli avevano trovato in tasca la tessera del Partito fascista italiano. La condanna a morte era stata poi commutata in pena detentiva. Per quattro lunghi anni, mentre lo spostavano da un carcere all’altro, da Borovica a Cocevje, la moglie Antonia e il figlio non avevano più saputo se fosse vivo o morto.
«Una cosa – osserva Sergio Gelisi, il figlio di Antonio, che guida ora l’azienda vinicola, con la sorella Roberta – mi è rimasta impressa. Delle atroci sofferenze patite dagli ebrei nei lager nazisti, sono rimasti i segni e i luoghi della memoria. Dove un tempo mio nonno Giuseppe è stato tenuto in catene, ora c’è un prato, io l’ho visto. Non c’è nulla che ricordi i patimenti di decine di migliaia di italiani. Meno la metà di loro è sopravvissuta. Mio nonno è stato picchiato più volte, in carcere. Cercavano di rieducarlo, di togliergli quello che aveva in testa: per fortuna non ci sono riusciti».
Le vicissitudini di nonno Francesco Giuseppe, però, hanno segnato il capostipite dell’azienda vinicola, mentre Umago diventava d’improvviso ai suoi occhi una città sconosciuta. Dietro la cattedra maestri che parlavano una lingua diversa, il suo cognome che da Gelisi mutava in “Jelicich”...
«Mio papà ha sofferto tanto», una nota di tenerezza colora la voce di Sergio. Ma la tempra istriana non mente. E quando il ministro democristiano Emilio Colombo ha stanziato 5 miliardi di lire per l’Ente nazionale delle tre Venezie, con la legge 240 del 1955, per la bonifica di 2.700 ettari di terreni, sui quali sarebbero sorti 339 poderi, la famiglia Gelisi ha colto la palla al balzo.
Così, nel 1961, i Gelisi hanno messo radici alle Villotte di San Quirino, al podere “numero 45”. E con loro, altre cinquanta famiglie di esuli. «Era un piccolo podere di 7 ettari – racconta Sergio – che ha preso il nome e cognome di mio papà. C’era la casa colonica, dove sono nato anch’io, con annesso il fienile e il deposito per il granoturco, quattro mucche nella stalla, due maiali, il pollaio. E l’Ente nazionale per le tre Venezie metteva a disposizione anche due tecnici per insegnare, a chi non lo conosceva, il mestiere dell’agricoltore».
Non era il caso dei Gelisi. Già il nonno, a Umago, curava le viti e la campagna, prendendo a volte il largo, sulla barchetta da pesca. Della semplice agricoltura di sussistenza, la famiglia Gelisi ha fatto poi un’arte. E da quel singolo ettaro di vigna del podere “numero 45” si è sviluppata e consolidata un’azienda che si estende, oggi, su 30 ettari vitati.
«Produciamo – aggiunge Sergio – 400 mila bottiglie l’anno e le esportiamo in tutto il mondo, dal Giappone agli Usa. Siamo anche i fornitori ufficiali delle forze armate a stelle e strisce».
Sergio, 50 anni, e la sorella Roberta, 46, seguono le orme di papà Antonio, che, ora ottantenne, ne osserva con orgoglio i progressi. Al suo fianco, l’inseparabile moglie Giorgina Alessio, 78 anni. Una passione, quella per il mondo del vino, che si sta tramandando alla quarta generazione.
«Per noi è molto importante – Sergio riassume la filosofia familiare – proseguire il lavoro che hanno fatto mio nonno e poi mio padre. Per noi, questo, non è solamente un mestiere. È una forma di riscatto. Il nostro Stato ci ha dato tanto. Da una grande disavventura, in cui avevano perso tutto, i miei nonni e i miei genitori hanno scelto di seguire la loro patria, la loro bandiera. Qui – continua – a Pordenone hanno ritrovato la lingua e la casa. Hanno trasmesso a noi figli la tenacia, dandoci qualcosa da difendere, la forza per affrontare le difficoltà, giorno dopo giorno. Mio papà ha perso tutto in Istria, noi lavoriamo per continuare quello che lui ha seminato qui. Un piccolo seme – conclude – che è diventato una grossa pianta. È quello che cerco di insegnare anche ai nostri figli».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto