Ragazze a luci rosse a 5 mila euro al mese: ecco il giro d'affari dei centri massaggi cinesi

UDINE. Ogni mese riuscivano a incassare migliaia e migliaia di euro (in media cinquemila, con punte di novemila), ma vivevano praticamente da recluse le donne cinesi che lavoravano nelle quattordici case a luci rosse – mascherate da centri messaggi – che la scorsa settimana sono state sequestrate dai carabinieri in città e in varie località della provincia, da Tricesimo a Remanzacco, da Campoformido a Cervignano, fino a Pradamano e Palmanova. Le giovani molto spesso vivevano in stanze adiacenti ai locali in cui ricevevano i clienti (dalle prime ore del mattino e sino a tarda notte) e raramente uscivano.
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In un anno di indagini diciassette persone sono finite in carcere con l’accusa di sfruttamento della prostituzione e favoreggiamento personale. Altre ventiquattro sono state denunciate a piede libero. Secondo i militari dell’Arma l’organizzazione (quasi tutta al femminile) responsabile di questo giro di “lucciole” aveva creato una vera e propria rete in tutto il Friuli e con diramazioni fino in Veneto e in Lombardia. Le ragazze si spostavano spesso da un centro all’altro.
Prezzi e carte fedeltà
Per ogni prestazione sessuale guadagnavano dai cinquanta ai trecento euro. Il più delle volte per un rapporto completo, nell’ambito di un servizio di sessanta minuti, venivano richiesti circa duecento euro. Il costo diminuiva per un tempo inferiore. Ai clienti veniva rilasciata una sorta di fattura, quasi sempre di trenta euro, per il solo massaggio. E i frequentatori abituali avevano anche la carta fedeltà: ogni cinque o dieci servizi, ce n’era uno in omaggio oppurescontato.
Da lucciole ad amministratrici
Le ragazze venivano regolarmente assunte e ricevevano buste paga minime (per quattro o sei ore lavorative). I loro guadagni, come detto, in realtà erano molto più elevati. E così, quando una di loro riusciva a mettere da parte abbastanza soldi, poteva a sua volta rilevare un centro benessere, in modo da poter guadagnare anche la metà degli incassi delle dipendenti.
Era questo, infatti, l’accordo generale: tutte le entrate venivano spartite al cinquanta per cento tra le “massaggiatrici” e le gestrici del centro. Una di queste ultime, sentita dagli inquirenti – l’inchiesta è stata avviata nell’aprile 2017 dai carabinieri della stazione di Palmanova e poi coordinata dal sostituto procuratore Giorgio Milillo –, ha riferito che una delle sue dipendenti riusciva a guadagnare anche diciottomila euro al mese che, suddivisi, diventavano novemila ciascuna. Un’altra titolare ha dichiarato di guadagnare circa dodicimila euro al mese.
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Flusso di soldi verso la Cina
I soldi, stando alle prime ipotesi degli inquirenti, finivano dritti in Cina. I militari, infatti, hanno sequestrato tre contratti di compravendita relativi ad altrettante case acquistate in Oriente per complessivi 650 mila euro. Insomma, lo scenario tratteggiato da questa maxi-operazione (denominata “Veneralia”) è chiaro. Le titolari dei centri, attraverso alcuni siti internet, perlopiù cinesi, reclutavano le ragazze disponibili a prostituirsi. Alcune di loro si dichiaravano disponibili a fare “tutto” (ossia ad arrivare al rapporto sessuale completo), mentre altre solo “metà” (si limitavano, dunque, a pratiche manuali).
Qualche donna, dopo un certo periodo e grazie ai denari accumulati, entrava nel giro di sfruttamento divenendo titolare o amministratrice di fatto. Coloro che provvedevano alla gestione a volte utilizzavano come prestanome un cinese di cui “affittavano” l’identità. Si trattava quasi sempre di un connazionale che risultava ancora titolare di un regolare permesso di soggiorno, ma che in verità era già rientrato in patria. Anche i corrispettivi per questi affitti finivano in Cina tramite bonifici.
Le regole dei centri hot
La vita dentro le case a luci rosse era regolata in ogni suo aspetto. Anzi, in un centro i carabinieri hanno trovato anche un cartello appeso al muro con una sorta di decalogo per le dipendenti: non accettare mance dai clienti, non ingelosirsi se una ragazza aveva più richieste, non uscire dall’appartamento.
Il rifugio di via Battistig
In via Battistig, a Udine, abitava la responsabile di uno dei centri e in quell’appartamento i carabinieri, durante una perquisizione, hanno trovato anche una ragazza cinese immigrata illegalmente. Non solo: c’erano altre quattro altre stanze arredate e non occupate e, secondo gli investigatori, servivano a ospitare le dipendenti ancora irregolari, ossia quelle in attesa di permesso di soggiorno.
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