«Rapito dal fascino di D’Annunzio. Il Vate si suicidò? Molti gli indizi»

UDINE. Fatichi ad accostare lo studio di centosettanta pagine sul male oscuro del Vate a un giovanotto ventiquattrenne. Logica superficiale a volte sviante. Ti fa meno strano pensare a un autore col bianco capello, le mani nodose e ricoperte di efelidi. La gioventù è poco pratica del passato, lo evita se non è costretta a scoperchiarlo.
D’Annunzio, poi, è un signore alquanto scomodo da sfogliare; la storia ha preferito caricarlo di ombre, seppure uomo di raro genio. E semmai lo si volesse celebrare, s’impone la cautela. Il suo estremo senso dell’erotismo? I legami con fascismo? Le amanti che popolavano il Vittoriale?
«Dei si dice non bisogna mai dare eccessivo peso - precisa Tobias Fior, uno che col Gabriele ha stretto un patto serio - anche perché i difetti si tramandano più facilmente delle virtù». Il ragazzo di Verzegnis se lo è preso sottobraccio, il poeta pescarese della Beffa di Buccari, con il desiderio forte di dare a Cesare quel che è di Cesare. Anni di dedizione, senza distrazioni o crolli improvvisi di stima. Oltre a diventare un habituè della “Rassegna dannunziana” (un luogo riservato a penne colte), Fior si è concentrato laddove pochissimi si erano soffermati: il grave scoramento dell’uomo Gabriele.
Fra un paio di settimane, a cura di Youcanprint, uscirà il volume Questo ferale taedium vitae. La depressione di d'Annunzio. «Ufficialmente lui morì per emorragia celebrale, ma l’ipotesi suicidio è ben più di una campata congettura. Troppe tracce lasciate dappertutto, unite a una cerca confidenza genetica col gesto estremo, conducono a una sentenza piuttosto veritiera».
- Ci perdoni, Fior, com’è che è le è entrato in circolo questo signore?
«Leggendolo. Dai libri alla biografia. Una fascinazione improvvisa. Mi stregò subito il suo eclettismo, l’atteggiamento al limite del paradossale, quel nascondersi al di là del gesto euforico».
- Nel senso?
«L’indossare svariate maschere rappresentava una necessità per confondere una fragilità imperante. Amava confondere le sensazioni e i giudizi. Affermava e negava in un’abile miscellanea di verità e di furbe coperture».
- Era amico di Mussolini...
«Ecco, non è proprio così. Gabriele non fu un fascista, assolutamente no. Tant’è che il partito lo screditò. E i rapporti fra lui e il duce non erano idilliaci, come invece si crede».
- Una bufala, allora, pure la storia che si ruppe due costole allo scopo di favorire un certo autoerotismo estremo?
«Ovviamente sì. Ma le pare possibile? Sarebbe morto. Allora mica c’erano i rimedi di adesso. I detrattori si attaccarono a qualunque fessiera pur di metterlo alla berlina».
- Dunque. C’incuriosisce questa fine tragica.
«Già se ne accennò nel libro Il mostro e il mago di Attilio Mazza, un profondo conoscitore dell’universo dannunziano. La prostazione degli ultimi anni di vita trova riscontri nell’infanzia e in certe liriche vergate dopo la morte dell’amato nonno paterno nella raccolta Prime vere, stampata postuma col titolo In memoriam. C’è dell’altro. D’Annunzio odiava il carnevale. La felicità della strada contrastava con la tristezza del suo animo, diceva. Probabilmente non casualmente morì il primo marzo del ’38, il giorno in cui il carnevale finiva. Il suicidio si rivela deciso ne Il trionfo della morte, romanzo psicologico che lega svariate tematiche topiche, il superomismo, il carattere chiuso dell’eroe e la scelta, appunto, di mettere fine al mal di vivere».
- È una diceria anche l’abbondante uso di cocaina?
«Ne abusava, è vero. La sua immensa produzione letteraria, le sue imprese e un’attività sessuale frenetica gli negavano i normali cali d’attenzione».
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