Richiamare il personale sospeso o no
UDINE. Con poco meno di 800 nuovi positivi e una decina di morti nella giornata di sabato 11 dicembre in Friuli Venezia Giulia, è ragionevole azzardare che il picco dei contagi non sia ancora stato raggiunto e che, probabilmente, l’Italia toccherà l’acme in coincidenza con il Natale.
Le proiezioni nazionali immaginano fino a 30 mila nuovi casi al giorno per poi scavallare in una lunga e lenta discesa la cui durata sarà condizionata dai fattori che conosciamo: mascherine e vaccinazioni.
I numeri testimoniano che la pandemia non è finita e che bisognerà attendere la prima parte dell’anno nuovo. La situazione non è drammatica come un anno fa, con meno ricoveri in terapia intensiva e nelle altre aree mediche. Ospedali e rete di assistenza sono però affaticati e con un numero insufficiente di personale.
Si è affacciato, perciò, un dibattito sull’opportunità di richiamare in attività medici e infermieri sospesi dal servizio al termine del lungo iter. La richiesta trae origine dallo stato di sofferenza di alcuni reparti e viene dalla voce disperata dei primari.
Uno su tutti, a Padova, ha sollevato la questione. Altri suoi colleghi dicono di no e hanno ragione. Vi sono alcuni punti di vista che puntellano questa posizione. Il principale è che il dipendente pubblico chiamato a tutelare la salute dei cittadini, e che rifiuta un obbligo vaccinale nel corso di una pandemia, rompe la relazione che lo lega da un lato allo Stato e dall’altro a quanti vanno tutelati.
Lavorare in un ospedale e non volersi sottoporre ai trattamenti che sono suggeriti ai pazienti per evitare di ammalarsi o di ammalarsi in maniera meno severa non è spiegabile, in questo contesto, nemmeno per quanti sostengono i diritti alla libertà di scelta e di cura.
Rimane, poi, quella sgradevole sensazione che gli italiani hanno troppo spesso, ovvero che ci siano persone meno uguali alle altre. Non è accettabile.
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