Rina, l’assassina che riaffiora dal passato

PORDENONE. La mostra “Serial Killer, dalla vittima al carnefice” di Jesolo, nel weekend di chiusura dell'1 maggio, presenta per la prima volta esposta al pubblico una sezione con oggetti appartenuti a Rina Fort, soprannominata la “Belva di via San Gregorio” per il delitto passionale che a Milano nel 1946 la trasformò in spietata assassina della rivale in amore, moglie del suo amante, Franca, e dei suoi tre figli piccoli trucidati a 7, 5 anni e 10 mesi.
La famiglia Ricciardi non esisteva più, caduta sotto i colpi di una sbarra di ferro. Le vittime avevano in bocca del cotone imbevuto di ammoniaca,
Sono trascorsi 64 anni esatti dall’aprile del 1952 quando venne pronunciata la sentenza di condanna all’ergastolo per la serial killer originaria di Santa Lucia di Budoia, ma ancora ha fatto rabbrividire i primi visitatori che hanno ammirato la sezione dedicata alla Fort, la lucidità con cui lei stessa ricostruì la dinamica del delitto nella sua unica dettagliata confessione, resa nella Questura di Milano una settimana circa dopo l’omicidio, dopo giorni di estenuanti interrogatori.
Sono visibili a Jesolo i suoi guanti indossati fino a poco prima di compiere la strage, frammenti di fluidi e materia grigia raccolti in una provetta il 30 novembre del 1946, giorno della scoperta del massacro a Milano, documenti autografati dalla killer e una raccolta di foto originali dell’epoca che ritraggono la scena del crimine con i corpi riversi delle vittime e la Fort, rea confessa, durante il processo a porte aperte che fece scalpore in tutta Italia e che divenne il caso più efferato del dopoguerra.
La prima sentenza arrivò il 20 gennaio 1950: «Mi sento tranquilla» aveva detto ai carabinieri nel corridoio mentre la riportavano in aula. Fu trasferita nel carcere di Perugia, dove occupava il tempo confezionando indumenti per bambini. Il 9 aprile 1952, la Corte d’Appello di Bologna confermò l’ergastolo.
Diciotto anni dopo la strage, Rina Fort scrisse a uno dei fratelli di Franca chiedendo perdono. La sorella Anna aveva fatto domanda di Grazia, ma affnché fosse concessa era necessario il perdono della parte offesa. Perdono che sarebbe arrivato se la Fort avesse fatto il nome del suo complice. Ma la Fort non aveva nomi e restò in carcere.
«Colpisce soprattutto il pubblico femminile – raccontano gli organizzatori della mostra Serial Killer – la sua vita travagliata prima dell’omicidio costellata da lutti e tragedie legati a tutte le figure maschili che le furono care.
Il padre morì durante un’escursione in montagna nel tentativo di aiutarla a superare un passaggio difficile, il suo primo fidanzato morì di tubercolosi poco prima del matrimonio e, come non bastasse, poco dopo la Fort scoprì una precoce sterilità.
A 22 anni si sposò con un compaesano da cui si dovette separare perché finì in manicomio, fino al 1945 quando si trasferì a Milano dalla sorella dove conobbe Giuseppe Ricciardi, in nome del cui amore compì la strage».
«Nell’ultimo weekend di apertura della tappa italiana a Jesolo abbiamo voluto omaggiare il pubblico del Friuli Venezia Giulia con questo ulteriore allestimento – concludono gli organizzatori – assieme al mostro di Udine presente in un’altra sezione abbiamo trattato due fra i più importanti casi che hanno riguardato la regione del Nordest».
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