Roma corrotta, nazione infetta, Friuli ipocrita

Rispetto alla tanto vituperata Prima repubblica, in effetti, qualcosa è cambiato in Italia. Il meteo. Non serve più che piova, perché il governo – nel significato estensivo di chi ci guida, ci amministra, ci comanda – sia ladro. Ladro non così tanto per dire, ladro proprio.

Mafia capitale è l’esempio di come ormai la criminalità funzioni come un depuratore rotto di un’azienda di vernici: esce un po’ di sostanza tossica, si aspetta qualche tempo, tutta l’acqua diventa rossa e chi si è visto si è visto. Ci sono quelli che dicono che si generalizza. Magari, gli rispondo io. Magari servisse generalizzare. Qui si generalizzano da sole le cose.

Basta tornare a Roma e seguire il filo rosso dei soldi. S’è infilato dappertutto, come un Poltergeist passa i muri fra destra e sinistra. Mentre il sindaco di Roma Ignazio Marino ripete una cosa che sappiamo già: sono onesto. Benissimo.

Anche mia nonna lo era, ma quello che non aveva – e che Marino dovrebbe avere per restare in Campidoglio – è la forza politica e morale per sgominare la banda di criminali che ha infestato Roma, e quindi l’Italia, come recitava il titolo della storica inchiesta de l’Espresso dell’11 dicembre 1955 a firma di Manlio Cancogni “Capitale corrotta=Nazione infetta”. Qualcosa che non si ferma con un commissario.

Qualcosa che non si ferma con la distinzione, banale e retorica, fra legale e illegale. Il corpo di questo Paese è malato. E il mal di Roma si diffonde dappertutto. Fino a farci capire quanto in Friuli siamo diventati ipocriti con la nostra classe politica. E non chiediamo conto dei comportamenti e delle scelte. Non fino in fondo.

Ecco che veniamo al nostro Friuli, molto più italiano di quanto sembri in certe circostanze. Qui succedono cose “minori”, ma da un certo punto di vista sono sintomi altrettanto gravi della malattia del Paese, di una politica che non dovrebbe più esistere. Magari senza crimini, ma con quel senso di impunità che di questi tempi non va più bene.

Fa davvero tristezza vedere come al Consiglio regionale armeggino con norme e regolamenti per far finire in sordina il caso di Enzo Marsilio, ovvero del consigliere regionali del Pd che, si è capito in queste settimane, “teneva famiglia”.

Nel senso che molti fondi regionali sono andati ad attività di congiunti. Attenzione, lui non c’era. Tutto si è svolto secondo le regole. Tutto è fatto come la politica sa fare certe cosette.

Ma, proprio per questo, è ancora più grave. Marsilio e i suoi fedelissimi vanno in giro dicendo: “Se uno è consigliere regionale e un parente ha delle attività legittime, dovrebbe forse non poter accedere ai fondi pubblici che gli spetterebbero comunque?”. Lo chiedono come domanda retorica, convinti che la risposta giusta sia: “Ma certo che può accedervi, che discorsi sono?”.

E invece io penso di no. E, ne sono convinto personalmente, anche il governatore Debora Serracchiani pensa di no. Io penso che di questi tempi, con il disastro in cui versa il Paese, con i ladri che ci sono in giro, con la corruzione che si è mangiata le fondamenta delle case, un politico – se fa politica – dice a sua moglie che i soldi pubblici lei non li prende. Si chiudono nel tinello, discutono animatamente, poi decidono: o facciamo politica, in questa casa, o facciamo l’albergo diffuso con i soldi pubblici. Entrambe no. Una volta che hanno deciso di fare politica, elargiscono i fondi pubblici all’esterno delle loro parentele.

Così ragionerebbe il Pd in forma teorica. Poi, come s’è visto in casi ben più gravi di quello friulano, c’è la pratica. E la pratica è fatta di riunioni e voti spesso autoreferenziali, dove il Palazzo protegge i suoi abitanti dai pericoli esterni. Spiegatemi a cosa serve la giunta delle elezioni, se di fatto quelli che ci siedono sono chiamati a decidere su un loro “collega”. A nulla.

Chiudo sui profughi e sulla Lampedusa del Nord, perché il tema è intimamente legato a quanto detto fin qui. La presenza a Dolegna della coop “La Cascina” per gestire l’emergenza non è un dettaglio da poco. I tentacoli di Mafia Capitale per varie strade – legali e non – abbracciano tutto il Paese.

Fa effetto vedere che le stesse persone coinvolte nella vicenda di Mineo, prendano appalti in Friuli. Soprattutto se la presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi, in visita venerdì in regione, dice senza troppi giri di parole che la mafia qui da noi c’è e che ci sono “troppi segnali inquietanti”. Il Messaggero Veneto sta scrivendo di questi temi da mesi.

Abbiamo intervistato magistrati e simboli dell’antimafia italiana, da Lirio Abbate a Roberto Saviano. Ma in giro per il Friuli, ancora si dormicchia. Non ci crediamo fino in fondo.

Ci sembrano esagerazioni. Ma è proprio quello che la mafia vuole. Rileggete le parole scritte da Leonardo Sciascia nel 1972: «La parola mafia è stata applicata alla cosa, o la cosa ha preso quel nome, in forza di una distinzione qualitativa... di “oscure fratellanze”, “sette segrete che diconsi partiti”, un popolo che le fiancheggia, magistrati che le proteggono».

E «al centro di tale dissoluzione c’è una capitale col suo lusso e le sue pretensioni feudali in mezzo al secolo XIX». Eccoci di nuovo qua.

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