«Russia, non volevo più ricordare»
MANZANO. Freddo, fame, orrore, morte. Sono le angoscianti sensazioni che accompagnano ancora oggi le notti del caporale maggiore Mario Chiappino, classe 1918, fiorentino di Scandicci nato da genitori manzanesi, ai tempi rifugiatisi in Toscana per sfuggire alla guerra.
Nella sua abitazione di Case – dove vive da solo, perfettamente autonomo, aiutato dalla figlia solo nelle faccende casalinghe – il 94enne Mario, tra gli ultimi reduci della guerra in Russia, conserva in uno studiolo il cappello di alpino, le croci al merito, una vecchia gavetta, tante medaglie. Sono gli unici testimoni di quella tragica avventura che visse nel 1942: di quella disgraziata disfatta italiana nel gelo della Russia (114 mila i soldati italiani periti), infatti, Mario non ha mai voluto parlare. Perché non ci sono parole per spiegare l’assurdità di quel massacro al quale è sopravvissuto, anche se non senza conseguenze: una pallottola in testa e quasi un anno in ospedale.
Solo oggi, dopo aver rotto il silenzio con un parente militare, che sente forse più vicino per comunanza di esperienze, accetta di accennare a quella dura esperienza.
«Chi è tornato dalla Russia era visto come disertore – spiega Mario –, solo perché era rimasto vivo». Un concetto d’onore, quello di morire per la Patria, piuttosto difficile da comprendere per le nuove generazioni. «Dopo l’Albania mi mandarono sul fronte russo, partii nel ’42 col treno da San Giovanni, facevo parte dell’Ottavo Reggimento Divisione Julia degli Alpini. Dopo un anno tornai in Italia per una ferita alla tempia, rimasi nove mesi all’ospedale di Trento, poi a Udine tre mesi in convalescenza. Quindi fui congedato».
Oltre 2.500 dei soldati di quel reggimento, invece, non tornarono più. «So dov’è il campo, ma non ci sono mai voluto tornare», dice Mario, che dopo il servizio miltare ha lavorato come agricoltore e poi in un’azienda di sedie, cercando sempre di rimuovere quei momenti drammatici in Russia.
E questi sono l’inizio e la fine: ma cosa accadde esattamente in quell’anno? Di guerra e battaglie Mario non parla: troppi compagni ha visto accasciarsi accanto a lui, pietosi cadaveri senza nome tra i quali si nascondeva per sfuggire ai nemici. «Faceva tanto freddo, avevamo fame. Mangiavamo patate, quando eravamo fortunati, altrimenti radici. Rubavamo erbe nei campi, broccoli, verze. Per il resto c’era solo morte».
Oggi la reazione del caporale maggiore manzanese, che ha evitato per decenni l’argomento Russia, si potrebbe definire «disturbo post-traumatico da stress», comune a tanti reduci di eventi drammatici; una rimozione, però, che non valeva durante il sonno. «Una volta che è stato male - racconta la figlia – urlava “siamo nel Don, siamo nel Don”».
«Non ho mai raccontato nulla ai figli – conferma il reduce –, mi tenevo tutto dentro, adesso di quei momenti ricomincio a sognare qualcosa. Tante volte ho pensato di non farcela, ero soltanto un ragazzo di 20 anni. Dopo la guerra con alcuni commilitoni friulani sono rimasto amico, ma ormai sono tutti morti».
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